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"A Durban serve coraggio", di Marco Fratoddi

Una prima notizia è già arrivata: la prossima Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici, la Cop 18, si terrà fra dodici mesi in Qatar. Il piccolo emirato infatti, neanche fossero le olimpiadi, ha battuto la candidatura della Corea del Sud e sarà dunque il primo fra i grandi produttori di petrolio ad ospitare il summit delle Nazioni Unite contro i combustibili fossili.
Intanto, però, che cosa sta accadendo durante il vertice che si è aperto lunedì scorso a Durban? Sembra che l’argomento, nonostante la presenza di Angelina Jolie, Al Gore e Leonardo Di Caprio, stia interessando davvero poco i media occidentali. Mai come stavolta del resto l’ormai tradizionale incontro di fine anno sul riscaldamento globale, che ha portato nella capitale sudafricana 17.000 delegati da 195 paesi, contiene un epilogo già scritto: gli Stati Uniti sono disposti a sottoscrivere un accordo vincolante soltanto se verranno imposte le stesse condizioni a Pechino.
Al contrario la Cina aderirà ad un nuovo trattato non prima di aver consolidato la propria condizione economica. Perciò, sostengono praticamente all’unanimità gli osservatori, il massimo che ci si può attendere da questa sessione è una proroga al 2015 del protocollo di Kyoto, mai ratificato dagli Usa e privo di obblighi per la Cina, che altrimenti dovrà andare in soffitta entro la fine del prossimo anno.
Sembra poco, in realtà sarebbe già un successo. Perché il conflitto fra le due superpotenze del clima, esploso nel 2009 a Copenhagen, non è l’unico a condizionare gli esiti del negoziato. Tanto per cominciare al fianco della Cina si schierano le altre economie emergenti che compongono il cosiddetto Basic, vale a dire Brasile, Sudafrica e India che ormai raggiungono complessivamente il 54 per cento delle emissioni e galoppano verso indici del Pil da primo mondo.
Quest’ultima, nonostante l’impegno volontario a ridurre del 25 per cento le emissioni entro il 2020, ha aumentato del 60 per cento le proprie emissioni rispetto a dieci anni fa e secondo l’Agenzia internazionale dell’energia rappresenta oggi il terzo inquinatore mondiale. Intanto Russia, Canada e Giappone, sempre in nome della competitività, hanno già fatto sapere che in mancanza di un accordo fra i principali inquinatori si chiameranno fuori da qualsiasi ipotesi di prosecuzione del trattato, anzi da Ottawa sembra sia già arrivato il ritiro ufficiale della firma a partire dal mese prossimo.
È una geopolitica sempre più inestricabile, insomma, quella che accompagna il negoziato: sul versante opposto i paesi dell’Alba (vale a dire Venezuela, Cuba, Bolivia, Ecuador, Honduras, Nicaragua, Dominica, Saint Vincent e Grenadine, Antigua e Barbuda), ancora al di fuori dei processi di rapida industrializzazione, si dicono fortemente preoccupati per il “vuoto legislativo” che potrebbe seguire al tramonto del protocollo di Kyoto e chiedono di rilanciare il dibattito sul Fondo verde per il clima (100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020) approvato lo scorso anno a Cancun.
Già, ma l’Europa? L’occasione che si presenta per il Vecchio Continente, proprio in funzione dello stallo fra i blocchi, è preziosa. Lo scorso 16 novembre, infatti, a Strasburgo è stata approvata una risoluzione che rilancia il ruolo dell’Ue nelle politiche globali verso l’economia low carbon auspicando la riconversione del sistema energetico alle rinnovabili ed evocando una vera e propria «road map della green economy». In più si propone di rimuovere entro il 2020 tutti gli incentivi dannosi per l’ambiente avanzando l’idea di una tassa mondiale sulle transazioni finanziare per «promuovere la protezione del clima e della biodiversità nei paesi in via di sviluppo».
Il pianeta nel frattempo, come sottolineano in molti, si trova all’ultima spiaggia visto che la temperatura durante l’ultimo secolo è salita di un grado e le emissioni, nonostante la crisi, sono tornate a crescere toccando quota +39 per cento rispetto al 1990. I negoziatori europei prendono tempo: «Aderiremo al nuovo trattato – ha dichiarato il capo della delegazione, Artur Runge-Metzger – soltanto se avremo la certezza che altri paesi lo faranno».
Ma forse con un po’ di coraggio l’Unione potrebbe spezzare la morsa nella quale Cina e Stati Uniti tengono in scacco la comunità internazionale attraverso una proposta che tenga insieme gli investimenti nell’innovazione e una normativa transitoria in grado di tutelare gli interessi dei paesi più deboli ai quali il global warming ha già presentato il conto.

da Europa Quotidiano 01.12.11