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"Chi risolve l’eurorebus?", di Franco Mosconi

Di fronte alla gravissima crisi che stiamo vivendo, sono tre le questioni aperte sui tavoli delle istituzioni europee, in quelle sopranazionali così come negli stati membri: il ruolo della Bce, gli eurobond, l’unione fiscale. Sono esse destinate a viaggiare su binari paralleli, quasi che la soluzione di una delle tre debba escludere le altre due, oppure è nel novero delle cose possibili una riforma più complessiva? Una crisi che sembra non aver mai fine ha posto in risalto tutta l’inadeguatezza della governance economica europea negli anni dell’euro.
La «zoppia» – per dirla con le parole del presidente Ciampi – di un’unione monetaria non controbilanciata da una politica di bilancio comune era stata da tempo denunciata. Certo, la crisi esplosa nell’autunno del 2008 ha aggravato questo stato di cose, ma la necessità di completare con ragionevolezza la costruzione europea non la scopriamo certo oggi. Riaffiorano così le tre questioni di cui si diceva all’inizio, che possiamo porre nei seguenti termini.
Primo: la Bce deve continuare ad agire in base al suo attuale statuto – ove l’imperativo categorico è quello di assicurare la stabilità dei prezzi – oppure dovrebbe farsi carico, come da più parti si è suggerito, anche della crescita economica? Secondo: l’Ue ritiene maturi i tempi per una prima emissione di eurobond o vuol lasciare questa proposta – prossima a compiere il suo ventesimo anniversario (com’è noto fu lanciata da Jacques Delors col suo Libro bianco del ’93) – nel proverbiale «libro dei sogni»?
Terzo: quali aree di sovranità nazionale i paesi dell’eurozona sono disposti a cedere (verso l’alto, cioè verso il livello di governo sopranazionale) per dare vita a una effettiva Unione fiscale? La tentazione, leggendo le domande nel loro assieme, di trovarsi di fronte a un puzzle irrisolvibile è forte: non si sa da quale parte cominciare a incastrare fra loro i pezzi. Questo rischio oggi è assolutamente da evitare, venendo l’Europa da mesi (per non dire anni) di tentennamenti. Se da un lato abbiamo visto più di un summit concludersi con un nulla di fatto, dall’altro la prassi di questo tempo è stata capace di introdurre alcune novità rilevanti.
Al riguardo, pensiamo ai copiosi acquisti effettuati dalla Bce a Francoforte, prima sotto la guida di Trichet e ora di Mario Draghi, di titoli di stato emessi da paesi dell’area dell’euro in evidente difficoltà (l’Italia fra questi). Il colpo d’ala però è ancora di là da venire, e vedere quotidianamente i nostri paesi europei in balia dei mercati finanziari internazionali non è motivo d’orgoglio. Anzi. L’Ue a ventisette, con un Pil pari a 12,9 trilioni di euro (che diventano 9,2 per i sedici dell’eurozona), è ancora oggi la prima economia al mondo (gli Usa si fermano a 11,8).
Possibile che una potenza economica di questa stazza non riesca a trovare in se stessa l’ispirazione e la volontà per uscire dallo stato d’incertezza in cui è intrappolata? La crisi, si badi bene, è giunta a tal punto che in giro per il mondo sono molti a parlare di una probabile fine dell’euro e, quel che è peggio, a scommettere su di essa.
Serve un colpo d’ala, dicevamo. Due proposte appaiono particolarmente meritevoli. La prima è quella sugli «eurounionbond» lanciata l’estate scorsa da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio (Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2011); la seconda è quella sull’«Unione fiscale» elaborata dal centro studi Bruegel con un paper scritto da Benedicta Marzinotto, André Sapir e Guntram B. Wolff (www.bruegel.org, n. 2011/06, novembre 2011).
In breve, l’originale proposta Prodi-Quadrio Curzio sugli eurobond è centrata sull’istituzione di un fondo finanziario europeo (Ffe), con un capitale di 1.000 miliardi di euro costituito dalle «riserve auree del sistema europeo di banche centrali (Sebc)» e «da altri capitali anche in forma di obbligazioni e azioni stimate a valori reali e non ai prezzi di mercato sviliti».
A questo punto, prosegue l’argomentazione, «il Ffe con 1.000 miliardi di euro di capitale versato potrebbe fare una emissione di 3.000 miliardi di eurounionbond (Eub) con una leva di 3 e durata decennale (e oltre) al tasso del 3%». Infine, i capitali così raccolti dal Ffe dovrebbero essere divisi in due parti; citiamo testualmente: «Per far scendere dall’attuale 85% al 60% la media del debito della Uem sul Pil, il Ffe dovrebbe rilevare 2.300 miliardi dei titoli di stato dei paesi della Uem (…) I rimanenti 700 miliardi della citata emissione dovrebbero andare a grandi investimenti europei anche per unificare e far crescere imprese continentali nell’energia, nelle telecomunicazioni, nei trasporti delle quali il Ffe diverrebbe azionista».
Pochi giorni or sono, Bruegel – il centro studi fondato nel 2005 a Bruxelles da Mario Monti – ha pubblicato un interessante paper dal titolo “Quale tipo di Unione fiscale?”.
Marzinotto, Sapir e Wolff propongono «una limitata unione fiscale, con la creazione di un ministero delle finanze dell’area dell’euro, e con un ministro che abbia diritti di veto sui bilanci nazionali che possano minacciare la sostenibilità dell’area dell’euro». Le innovazioni istituzionali rese necessarie da questa attualissima proposta – di unione fiscale si è molto parlato nell’incontro a tre Sarkozy-Merkel- Monti dell’altro ieri a Strasburgo – sono molte e profonde. Ancora una volta in breve: l’introduzione di una tassa imposta al livello europeo, ossia, «la disponibilità di risorse fiscali al livello federale» con il ricorso diretto ai contribuenti europei giacché – osservano gli autori – «tutte le unioni monetarie di successo hanno un ragguardevole bilancio federale». La loro proposta ne implica uno più piccolo, conferendo al nuovo ministero delle finanze dell’area dell’euro una taxing capacity di circa il 2 per cento del Pil dell’area medesima.
Altra necessaria innovazione istituzionale è quella sulle modalità di nomina del nuovo ministro delle finanze dell’area dell’euro, che dovrebbe essere «eletto dal parlamento europeo e dal consiglio con la normale regola di maggioranza». La proposta degli studiosi di Bruegel si allarga poi alla supervisione e regolazione del sistema finanziario dell’area dell’euro, prevedendo l’istituzione – proprio grazie all’aiuto del ministero di cui sopra – di una nuova authority (Edic, Euro-area deposit insurance corporation), necessaria soprattutto per la supervisione delle grandi banche operanti a livello continentale e che sfuggono, quindi, al controllo delle autorità nazionali.
Sia la proposta sugli unioneurobond sia quella sull’Unione fiscale richiedono modifiche ai trattati; entrambe aiuterebbero a risolvere la questione della missione della Bce, che potrebbe finalmente acquistare titoli, per così dire, «federali europei». Naturalmente si tratta di proposte in sè diverse, ma ancora una volta c’è qualcosa che le accomuna: aiutano a guardare avanti, verso un rinnovato patto europeo. Sta alla politica decidere da dove cominciare affinché quello che, in apparenza, è un puzzle trovi la sua corretta composizione.

da Europa Quotidiano 29.11.11