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"Storia d´Italia e di catastrofi", di Paolo Rumiz

«Ce le siamo sempre cercate, le sciagure, ignorando scientemente la storia, e la rimozione continua anche oggi». Le alluvioni di Genova, della Liguria e di Messina. L´Aquila ancora città fantasma dopo l´ultimo terremoto. E prima ancora, Vesuvio, Irpinia, Vajont, fino al Medioevo. Ecco come il nostro Paese è stato devastato dai disastri naturali. E ogni volta ha dimenticato la lezione Nel 1859 un tuono nel fondo dell´Appennino fa a pezzi Norcia, squarcia le antiche mura e inghiotte centinaia di vite. Manca un anno all´annessione dell´Umbria da parte dei Savoia, la città medievale fa ancora parte dello Stato della Chiesa e tocca al Papa intervenire. Ebbene, alla notizia del terremoto, Pio IX, l´uomo teoricamente più reazionario dell´epoca, impone un´illuminata normativa antisismica. Queste regole indispensabili, ma impopolari per via degli aggravi alla spesa edilizia, non saranno mai applicate. Motivo: con l´arrivo dei piemontesi l´ordine antico decade. Siamo in Italia, le norme danno fastidio. E poi il Paese ha altre gatte da pelare, a partire dalle rivolte del Sud. Per i norcini, neanche dire, è una festa. Il plebiscito del 1861 è per loro un´occasione unica per accantonare l´impopolare antisismica papalina, azzerare la memoria e gettare le premesse di un secolo e mezzo di malaedilizia e conseguenti disastri. Ce le siamo sempre cercate, le sciagure, ignorando scientemente la storia, e la rimozione continua anche oggi, con le celebrazioni del centocinquantenario dell´Unità che rimbombano di fanfare ma evitano accuratamente i disastri. Messina diventa un fiume di fango, la Liguria si squarcia sotto le grandi piogge, l´Aquila è ancora una città fantasma dopo l´ultimo sisma, ma nel grande compleanno dell´Italia i terremoti, le eruzioni, le frane e le alluvioni non hanno cittadinanza. Eppure se c´è una cosa che ci fa nazione è proprio il disastro, la sua anormale frequenza, il modo con cui la catastrofe naturale si riverbera su un territorio notoriamente mal costruito. È la nostra reazione alle avversità, la lezione che ne traiamo, e soprattutto il modo in cui esse vengono (raramente) elaborate o (più spesso) dimenticate.

Quando il Tevere invade Roma nel dicembre 1870, sotto l´onda emozionale si decide di dare alla città una migliore difesa dall´acqua, ma ecco che la solita commissione parlamentare insabbia tutto, al punto che cinque anni dopo, non essendoci ancora nulla di deciso, Giuseppe Garibaldi in persona rompe gli indugi, abbandona inferocito la sua Caprera e torna nella Capitale per inchiodare i politici alle loro responsabilità. Accolto da una folla immensa, tiene un memorabile discorso ai romani «con la voce dei bei giorni» e li esorta a essere «seri, seri, seri e fermi». Solo allora il Parlamento si muove e dà via libera ai lavori per i muraglioni di rinforzo alle rive del Tevere. Se oggi Roma è al sicuro è solo grazie a quell´urlo del Generale.

È un fatto che l´Italia non può più permettersi di subire terremoti e alluvioni senza trarre lezioni dal passato. E forse ora qualcosa timidamente si muove, anche su spinta della presidenza della Repubblica. A Spoleto è nato un Centro euromediterraneo che raccoglie la documentazione sugli eventi estremi e i disastri. Il 12 dicembre il tema dell´Unità d´Italia riletta attraverso i disastri sarà affrontato a Roma all´Accademia di San Luca in un convegno con i massimi esperti italiani del settore. «È incredibile quanto si debba insistere per far capire cose di un´ovvietà assoluta», dice il professor Domenico Giardini, nuovo presidente dell´Istituto nazionale di geofisica. «Le cose giuste le aveva già dette Rousseau dopo il terremoto di Lisbona del 1755. Disse che l´ecatombe è fatale se l´uomo si ostina a costruire case di sei piani in zone sismiche. Ma noi ormai siamo così freneticamente proiettati sul futuro che non abbiamo più tempo di riflettere sul passato e ogni catastrofe ci sembra un evento eccezionale. È un´amnesia fatale per un Paese che ha una media di mille morti l´anno per terremoti». In confronto alla cecità dell´oggi era quasi meglio la vecchia superstizione, quando alluvioni e terremoti erano punizioni divine. C´erano almeno i preti a tenerci in allerta con le “rogazioni”, processioni che evocavano il male con scongiuri, simbologie, rituali e precisi anniversari liturgici.

Il Vesuvio, per esempio, chi ci pensa più. Poi guardi la storia dei 150 anni e vedi che non dorme affatto. Comincia proprio nel 1861, salutando con una botta memorabile l´annessione al Piemonte. Poi brontola, in sequenza ininterrotta, nel 1867, 1872, 1891. Quattro anni dopo un nuovo rigurgito di lava crea il Colle Margherita e a seguire, nel 1899, una Piedigrotta di lapilli genera Colle Umberto. Nel 1906 un´eruzione violenta distrugge Borgo Tre Case, poi c´è quella del ´29 e ancora quella del ´44, descritta dallo scrittore Norman Lewis, che è a Napoli con l´esercito americano. San Sebastiano è minacciato e il paese esce in processione verso la lava con la statua del protettore. Ma la gente non si fida troppo e chiama in rinforzo San Gennaro, il cui tabernacolo viene però tenuto nascosto fino all´ultimo in un vicolo, perché Sebastiano non abbia a offendersi. Da allora il pentolone tace, la memoria del pericolo corso si attenua ed ecco, puntuali, i palazzinari all´assalto della scarpata di lava. Idem per frane e alluvioni. Palermo pare estranea a catastrofi di tipo messinese, ma basta un´occhiata al passato per cambiare idea. Andrea Goltara, direttore del Centro italiano di riqualificazione fluviale, ricorda l´esondazione del 1862, quella del 1925 e soprattutto quella, eccezionale, del 1931. Da allora si è talmente costruito in zone allagabili che, se oggi si ripetesse la grande pioggia di quell´anno, i danni sarebbero infinitamente più gravi. I disastri sono spesso recidivi, e quello di quest´anno a Genova è stato preceduto da eventi analoghi nel 1945, 1951, 1953 e 1970. E che dire dell´esondazione dell´Arno nel ´66: una fotocopia di quella già accaduta nel 1844.

Dal Dodicesimo secolo a oggi, Marco Amanti dell´Ispra ha registrato 480mila frane sul territorio nazionale, estese sul settanta per cento dei Comuni. La mappa dei terremoti dal 1861 registra non solo una sequenza ininterrotta di sismi e quindi la necessità di un´allerta costante, ma mostra con evidenza che negli ultimi vent´anni le scosse forti sono semmai diminuite per cui – statisticamente – c´è da aspettarsi un bel tuono a tempi ravvicinati. Più che l´Aquila, preoccupa il silenzio sismico che le sta attorno. L´amnesia è funzionale al cemento. Lo si è visto nel 2009 all´Aquila, dove molti ignoravano di trovarsi in area sismica e dove, in quel vuoto di memoria, i pirati dell´edilizia avevano fatto carne di porco del territorio. È una tendenza vecchia come l´Italia. Dopo il terremoto di Rimini del 1916, i parlamentari romagnoli fecero di tutto per far revocare le norme antisismiche e quando ci riuscirono, negli anni Venti, furono accolti come eroi alla stazione e portati in trionfo dalla popolazione. Stessa cosa in Friuli, dopo il terremoto del 1928. I paesi più “ammanigliati” scansarono le norme di sicurezza che avrebbero comportato spese edilizie maggiorate del 15 per cento, mentre i periferici subirono. Risultato: nel maggio del 1976 i centri esentati come Gemona videro un´ecatombe. Gli altri, come Pioverno, non ebbero neanche un morto.

«Solo chi ricorda sa il pericolo che corre, e quindi accetta di sottoporsi a regole che gli salveranno la vita», sbotta Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti e ideatrice del centro di Spoleto. «Per salvarci dai disastri, una forte memoria condivisa è più importante di un sofisticato tecnicismo che porta fatalmente a delegare le soluzioni a pochi, a scelte emergenziali, verticistiche, e allo scavalcamento delle regole. Ricordare ci aiuta invece a fare scelte democratiche e condivise, e a mobilitare la parte migliore di noi». L´Unità d´Italia azzerò anche la toponomastica “ammonitrice”. Nello zelo cartografico dei sabaudi, piccoli nomi di luogo come Pozzallo, Pietratagliata, Trematerra, Acquapendente, persero il loro senso o furono fraintesi. La costa sarda di “Maluventu” fu registrata come “Maldiventre” dai piemontesi che non capivano il sardo e per parecchie navi quel pezzo di mare divenne infido perché il nuovo nome non conteneva più l´avvertimento. Gli esempi dello stesso tipo non si contano. La frana più estesa d´Italia, quella di Ancona del 1982, avvenne su un pendio detto “Ruina”, dove dall´epoca dei Romani non s´era mai costruito proprio perché si credeva al senso dei nomi.

E che dire del Vajont, 1963, dove nel lago artificiale di una diga appena costruita cadde un monte intero detto “Toc”, che significa più o meno “qualcosa in bilico”. L´arroganza dei signori dell´energia nell´uso del territorio e la supponenza degli ingegneri di fronte alla memoria dei montanari fece, in un botto solo, duemila morti. Per un nome ignorato vennero giù trecento milioni di metri cubi di roccia e terra, e fu la più grande frana di sempre. Non fu la natura a essere matrigna, ma gli uomini a essere pessimi figli.

La Repubblica 28.11.11