Copenhagen, nel 2009, è stata la grande speranza fallita. Cancun, nel 2010, la precaria ripresa del negoziato. Da oggi, a Durban nel Sudafrica, comincia la Cop 17, la conferenza organizzata dall’Onu sul cambiamento climatico. Parteciperanno delegazioni di tutti il mondo, e certamente ascolteremo ispirate parole sulla necessità di arrestare il processo di riscaldamento globale del nostro pianeta, fenomeno che ormai la scienza (escluse minuscole frange negazioniste) considera reale e pericoloso. Eppure, sarà molto difficile, forse impossibile far sì che dal negoziato possa scaturire un accordo serio ed efficace in grado di fronteggiare il «climate change».
Troppi i veti incrociati tra le potenze vecchie ed emergenti; troppi gli interessi in gioco; troppo indeboliti dalla crisi economica e finanziaria internazionale i leader politici. I termini scientifici della questione non sono in discussione. Già oggi la temperatura globale è aumentata di 0,8 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale; andare oltre i 2 gradi può provocare conseguenze disastrose, anche se i modelli matematici di previsione non concordano sulla loro entità. Già oggi la concentrazione di CO2 nell’atmosfera tocca le 390 parti per milione; dovremmo fermarci a 350 per limitare l’aumento al di sotto dei 2 gradi. Molti Paesi industrializzati stanno adottando misure per limitare le emissioni dei gas serra, ma Paesi come la Cina, l’India e il Brasile continuano a segnare incrementi notevoli. Di questo passo raggiungeremo la soglia di 450 parti per milione di CO2 prima del 2020.
A meno che la diffusione dell’economia e della tecnologia «verde» (che pure è in atto), veda una fortissima (quanto auspicabile) accelerazione. È un fatto anche che il riscaldamento globale stia già oggi producendo conseguenze pericolose, sotto forma di maggiore «disastrosità» degli eventi meteo estremi. Ne parlano ormai apertamente gli esperti che hanno esaminato le recenti alluvioni in Liguria, Toscana e Sicilia, con volumi di precipitazioni mai registrati nel passato. Come mostra il recente rapporto sugli «eventi estremi» dell’Ipcc (gli esperti Onu che studiano il cambiamento climatico) se non agiamo ci aspetta un futuro in cui la frequenza di giorni caldi sarà fino a 10 volte superiore, con precipitazioni intense e venti più veloci. Cambiamenti che mettono a repentaglio le popolazioni più povere, e che modificano anche le geografie delle produzioni di alimenti, con più inondazioni e più siccità.
Sono quattro i temi principali su cui discuteranno i delegati a Durban. Il primo è il futuro del Protocollo di Kyoto, che è l’unico trattato vincolante per la riduzione dei gas serra in vigore, e riguarda i paesi industrializzati ma non gli Usa. È destinato a scadere nel 2012, andrebbe prolungato; ma il Giappone, l’Australia, il Canada e forse anche l’Europa non vogliono farsi carico di sacrifici se gli Stati Uniti e i paesi emergenti non prenderanno impegni analoghi. Il secondo è un accordo globale che in qualche modo stabilisca impegni vincolanti per tutti i paesi; obiettivo difficile, visto che i paesi in via di sviluppo chiedono il riconoscimento della «responsabilità storica» dei paesi industrializzati. Gli «sherpa» ipotizzano che se ne possa parlare solo dal 2016. Il terzo tema – su cui invece si spera in risultati positivi – è quello della «finanza verde».
A Copenhagen prima e poi a Cancun si decise di varare un «Fondo Verde» di 100 miliardi di dollari per finanziare l’adattamento al cambiamento climatico e i trasferimenti di tecnologie «verdi». Qui bisognerà decidere come gestirlo e soprattutto come alimentarlo: ad esempio, con tasse sui trasporti aerei o marittimi, sui comparti economici più generatori di gas serra, o sulle transazioni finanziarie. Infine, punto quattro, si cercheranno progressi sulle misure di adattamento e sulla difesa delle foreste, grandi e preziosi polmoni del pianeta. E se l’Europa e gli Stati Uniti sono alle prese con difficoltà economiche e carenza di risorse, tutti gli occhi sono puntati sulla Cina, ormai il primo paese del mondo per volume di emissioni. Pechino rifiuta di prendere impegni precisi per la riduzione delle emissioni, ma sembra intenzionata ad annunciare unilateralmente un megapiano per tagliarle in modo drastico e massiccio. Potrebbe essere un esempio per tutti.
“Spegnere” il surriscaldamento
per sconfiggere fame e povertà
La Stampa 28.11.11
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“Entro il 2050 l’effetto dei mutamenti climatici causerà
il 20% in più di denutriti”, di S. SISULU E C. SCARAMELLA*
Quasi un miliardo di persone soffre la fame vivendo ai margini del sistema alimentare globale. Per intenderci, si tratta di un numero di persone superiore alla somma delle popolazioni di Unione Europea, Usa, Canada, Giappone e Australia messe insieme. Inoltre, globalmente oltre due miliardi di persone soffrono di fame nascosta, cioè il non avere accesso alla necessaria quantità di vitamine e minerali per potersi sviluppare e condurre una vita sana.
Da alcuni anni si è evidenziato autorevolmente che riscaldamento del pianeta e cambio climatico incideranno negativamente su produzione alimentare e condizioni di vita di centinaia di milioni di poveri. Entro il 2050 la popolazione mondiale avrà probabilmente raggiunto la soglia dei 9 miliardi di persone, e ciò richiederà aumenti nella produzione alimentare nell’ordine del 60 e il 70 per cento. Ma per il 2050 i soli effetti del cambio climatico sull’agricoltura potrebbero aumentare del 20% il numero di coloro che soffrono la fame. Queste proiezioni poi non considerano una serie ulteriore di fattori che incideranno sulla questione alimentare a livello globale. Primo, la crescita dei disastri naturali associata al cambio climatico. Nel 2010, tali disastri hanno colpito circa 300 milioni di persone secondo un trend crescente che riflette la maggiore frequenza, irregolarità e imprevedibilità dei fenomeni climatici, generando un circolo vizioso di povertà, fame e vulnerabilità. Secondo, degrado ambientale, crisi degli ecosistemi e crescente scarsità di risorse strategiche, inclusa l’acqua, giocheranno un ruolo cruciale negli equilibri futuri in larga parte del pianeta. Già oggi 650 milioni di persone in Africa vivono in territori soggetti a erosione e degrado eco-ambientale, ma entro il 2025, questi processi potranno interessare i due terzi del totale delle terre agricole del continente.
Terzo, la crescita dei prezzi e la volatilità dei beni alimentari sui mercati globali. I poveri usano sino al 70% delle proprie risorse per l’acquisto di alimenti essenziali, e per loro la linea di demarcazione che separa la sussistenza dalla fame è sottilissima, come mostrato dalla recente crisi dei prezzi mondiali dei cereali. Scatenata da vari fattori concomitanti, la repentina ascesa dei prezzi nel 2008 ha spinto quasi cento milioni di poveri in una situazione di fame. Le previsioni per il futuro indicano che entro il 2030 i prezzi delle derrate alimentari potrebbero aumentare tra il 70 e il 180 per cento, anche a causa dei cambiamenti climatici. Come far fronte a queste sfide gigantesche, globali e «sistemiche»? Porre sotto controllo il livello delle emissioni per ridurre l’impatto dell’attività umana sul clima è un prerequisito urgente e non più procrastinabile. Ma in parallelo è necessario che aumentino produzione e disponibilità di cibo nutriente a livello globale e locale (ma in modo socialmente inclusivo e ambientalmente sostenibile); è necessario sviluppare politiche di lotta alla povertà rurale che appoggino i piccoli produttori e le loro famiglie attraverso modelli efficienti, ma anche inclusivi e solidali, perché la semplice disponibilità di cibo sui mercati non è sufficiente a garantire la sicurezza alimentare di popolazioni povere. Terzo, la crescente imprevedibilità e complessità dei fattori di rischio impone lo sviluppo di sistemi avanzati di gestione dei rischi e protezione sociale soprattutto in appoggio alle comunità povere. In questo quadro rafforzare la resistenza e flessibilità dei sistemi alimentari e la capacità di adattamento delle comunità ai mutamenti climatici sono obiettivi essenziali e strettamente connessi. Infine, intervenire sulle differenze di genere, investendo sulla massiccia presenza e sul ruolo delle donne nell’agricoltura e nella sicurezza alimentare all’interno della famiglia. Occorre uno sforzo globale e concertato per affermare una visione dello sviluppo che integri in maniera coerente aspetti sociali, economici e ambientali in una fase storica di condizioni climatiche radicalmente mutate.
* Sheila Sisulu è vicedirettrice esecutiva del World Food Program (Wfp)
* Carlo Scaramella è il responsabile Wfp per i cambiamenti climatici, ambiente, e gestione dei rischi
La Stampa 28.11.11