Sorprendono non poco le acrobazie dei partiti che sostengono il “governo tecnico” per dissimulare ogni confronto. Così si racconta di incontri notturni tra i segretari di Pd, Pdl e Terzo Polo insieme a Monti. A Palazzo Grazioli, dove i convitati convergerebbero clandestinamente, per vie segrete. Per negare l´evidenza. Che Pd, Pdl e Terzo Polo costituiscono i riferimenti di una “maggioranza” parlamentare. Anche la composizione della “squadra” dei viceministri e dei sottosegretari è ancora in sospeso. Saranno tutti tecnici. Ci mancherebbe. Per ribadire il carattere transitorio e im-politico di questo governo. Difficile non sorridere di fronte a tanta reticenza. Non fosse che si tratta di cose fin troppo serie. Eppure, è difficile negare che questo governo è altamente (lo dico non a caso) “politico”. Come ogni governo che governi, d´altronde.
a) È politico: perché è stato votato dal Parlamento con una maggioranza larghissima, la più ampia nella storia della Repubblica. Sostenuto dai principali partiti presenti e “rappresentati” in Parlamento. In una Repubblica la cui “forma” di governo, almeno dal punto di vista “formale”, è ancora “parlamentare”.
b) È “politico”: perché gli impegni che è chiamato ad affrontare e gestire – con il voto del Parlamento – sono “politici”. Dalle pensioni alla patrimoniale, dalla flessibilità del lavoro alle liberalizzazioni, dal fisco alla vendita delle proprietà demaniali.
c) È “politico”: perché i ministri, e soprattutto il primo ministro, Mario Monti, hanno compiti di rappresentanza e responsabilità, a livello internazionale, raramente tanto importanti e decisivi, come in questa fase. Perché la “fiducia” internazionale, in tempi di depressione economica e volatilità dei mercati, è una risorsa “politica” determinante. Il governo precedente non era più credibile. E non a caso è caduto.
d) È “politico”: perché non esistono “tecnici” scelti ad assumere ruoli e compiti “pubblici”, in enti e organismi di indirizzo, gestione e controllo, a livello nazionale e internazionale, senza legittimazione “politica”. E se anche non avessero un´identità politica, dopo l´esperienza direttiva in un organismo “pubblico” la assumerebbero.
D´altra parte, è arduo non attribuire una “connotazione politica” a Mario Monti, per dieci anni commissario europeo, su indicazione di due governi di segno differente (Berlusconi e D´Alema). Mentre fra gli altri ministri vi sono “tecnici” di rango, già eletti in Parlamento. Altri “vicini” a un partito, un´associazione culturale, un centro studi. Altri ancora che hanno svolto funzioni importanti a livello ministeriale e nelle istituzioni dello Stato. Negli enti locali. Difficile definirli tecnici-e-basta.
È, tuttavia, significativa l´enfasi che sottolinea la distinzione fra tecnici e politici. (Ne ho parlato anche in una recente Bussola su Repubblica. it). I “tecnici”, oggi più che mai, sono definiti proprio in opposizione ai “politici di professione.” Quando Bossi ironizza sul fatto che il presidente Napolitano «ha dato mandato di capo cordata a uno che le montagne le ha viste solo in cartolina», in effetti, tesse l´elogio dei “professionisti politici” opposti ai tecnici-e-basta. In una fase nella quale, però, i “politici professionisti” sono delegittimati. Mentre i “tecnici-che-fanno politica” (senza ammetterlo) sono ritenuti competenti e credibili. Dai cittadini, ma anche dalle autorità e dai poteri che contano, in questa fase. Cioè: i leader internazionali, da un lato, gli organismi e le agenzie che controllano e orientano i mercati, dall´altro.
Naturalmente, i “governi tecnici” costituiscono una anomalia, nelle democrazie occidentali. Ma non i “tecnici al governo”. I quali, però, sono espressi dai partiti. Senza problemi e senza reticenze. In Francia, ad esempio, gran parte dei leader politici e delle figure istituzionali provengono dall´Ena e dalle altre Grandes Écoles. Anche in Germania oppure in Inghilterra (per non parlare degli Usa) al governo i “tecnici” non mancano. Ma sono espressi direttamente dai presidenti-premier, cancellieri. E non sono “estranei” ai partiti.
Per cui suona strano, altrove, parlare di un “governo tecnico”. Tuttavia, come si è detto, anche in Italia, a mio avviso, i “governi tecnici” sono “politici”. Ma se non vengono definiti tali è per ragioni “politiche”. Basti pensare alle precedenti occasioni in cui sono stati insediati. Da gennaio 1995 a maggio 1996: il governo guidato da Lamberto Dini, dopo la caduta del primo governo Berlusconi (di cui era ministro). Ma, anche se composto in parte da ministri politici, possiamo inserire sicuramente in questa categoria anche il governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi (primo presidente del Consiglio nella storia della Repubblica non eletto in Parlamento), da aprile 1993 a maggio 1994.
In entrambi i casi, i presidenti del Consiglio provenivano dai vertici della Banca d´Italia. Vennero chiamati a governare in una fase di crisi economica e politica. Con il sostegno di un ampio arco di partiti, tradizionalmente alternativi. Nel caso di Ciampi: la Dc e il Pds postcomunista. Nel caso di Dini: il centrosinistra e la Lega Nord.
Ciò suggerisce che i governi tecnici, in Italia, svolgano i compiti assolti, altrove (tra l´altro: in Germania ma anche in Austria e in Israele), dalle grandi coalizioni. Quando, cioè, l´emergenza costringe le forze politiche più importanti a superare le tradizionali divisioni e a coalizzarsi. In nome del bene comune. Da noi questo non è possibile e neppure pensabile. Perché, per parafrasare il generale Carl von Clausewitz, in Italia la politica è «la prosecuzione della guerra – civile – combattuta con altre armi».
Così, nella Prima Repubblica si è praticato il “consociativismo” – cioè, il compromesso implicito. Mentre nella Seconda si ricorre ai “governi tecnici”. I quali, a differenza delle Grandi Coalizioni degli altri Paesi, non sono governi di “collaborazione”. Ma di “costrizione”. Subìta, in questo caso, dal Pdl e da Berlusconi. Infatti, secondo gli elettori (come emerge dall´Atlante Politico di Demos), la nascita del governo Monti avrebbe rafforzato, anzitutto, il Pd (23% degli intervistati) e l´Udc (12%). Mentre avrebbe indebolito soprattutto, il Pdl (41%) e la Lega Nord (16%).
Non è un caso che Berlusconi, proprio ieri, abbia ribadito l´intenzione di “raddoppiare l´impegno – pur restando dietro le quinte – a combattere coloro che ieri erano e oggi, nel loro profondo, restano: comunisti”.
Per questo tanta cautela nel confrontarsi apertamente, come normalmente avviene tra i partner di una maggioranza. Il fatto è che questo governo non segna una fase di “intesa”, per quanto transitoria. Ma una “tregua”. In attesa di nuove, furibonde, battaglie. Pardon: elezioni.
La Repubblica 28.11.11