Nel momento in cui molti sono in tensione, aspettando di vedere se e quanto le prossime manovre toccheranno stipendi, case o pensioni, il Presidente Napolitano ci stimola ad alzare lo sguardo. Ci invita, finalmente, a pensare anche agli «altri». Alle minoranze religiose, culturali, e, in particolare, a tutti quei bambini nati in Italia da stranieri che l’Italia si ostina a non voler considerare suoi cittadini. E così facendo Napolitano ci fa riflettere su cosa significa essere comunità inclusiva, che accoglie, che cresce senza discriminazioni e senza chiusure. Una riflessione importante non solo per il suo lato profondamente umano e valoriale, ma anche per il suo aspetto sociale ed economico.
Da sempre chiusura e protezionismo, tanto nelle società quanto in economia, portano isolamento e regressione. L’apertura non solo porta al proprio interno nuove energie, nuove idee e più dinamismo, ma proietta all’esterno l’immagine di una comunità forte, attrattiva, che non teme il confronto e le influenze esterne, ma che le integra e si alimenta di esse. E’ stata questa, per esempio, la grandissima forza degli Stati Uniti nei due secoli passati. Un Paese che ha accolto milioni di immigrati, spesso senza che nemmeno conoscessero la lingua inglese. E questo contributo ha reso gli Stati Uniti non solo un’economia più forte, ma un riferimento per milioni di persone nel resto del mondo. E oggi, anche se molti dei vecchi immigrati parlano ancora i loro dialetti di origine, l’inglese è diventato la lingua passepartout di tutto il mondo. Una sorta di divertente contrappasso, non avvenuto per caso.
Ma per capire il valore che gli immigrati possono portare in una società non c’è bisogno di guardare alla storia e al passato degli Stati Uniti: basta aprire gli occhi e saper vedere l’Italia di oggi. Gli immigrati rappresentano ormai una componente fondamentale della nostra economia e della nostra società, molti settori crollerebbero senza di loro. Come ci dicono i dati dell’Istituto Tagliacarne, che assieme a Unioncamere monitora il contributo degli stranieri alla nostra economia, ci sono settori, come quello delle costruzioni, in cui addirittura un quarto del valore aggiunto prodotto è dovuto agli stranieri. Sempre secondo le stime del Tagliacarne, il contributo complessivo degli stranieri al valore aggiunto prodotto in Italia è stato, nel 2009, di oltre 165 miliardi di euro, il 12,1% del totale.
Non solo, ma attraverso il loro lavoro gli immigrati contribuiscono anche ai nostri servizi e alle nostre pensioni. Pochi sanno che i contributi versati dagli immigrati all’Inps ammontano a sette miliardi e mezzo di euro, ovvero il 4% di tutte le entrate dell’Inps, una cifra altissima soprattutto se si considera che sono pochissimi gli immigrati che, invece, beneficiano di pensione dallo Stato italiano. E sono pochi non solo perché molti devono ancora maturarla, ma perché sono tanti quelli che dopo alcuni anni tornano poi nel loro Paese di origine lasciandoci in dote i loro contributi. Questo significa, come ben documenta l’ultimo libro di Walter Passerini e Ignazio Marino («Senza Pensioni», Chiarelettere), che gli immigrati stanno supportando in modo sostanzioso anche il nostro sistema di welfare sociale oltre che economico. E possiamo immaginare quanto maggiore potrebbe essere tale contributo se riuscissimo finalmente ad affrontare questo tema con meno foga ideologica e meno paure, aiutando molti stranieri ad integrarsi, cominciando dal rendere i loro figli, che di fatto sono italiani, cittadini a tutti gli effetti.
Le conseguenze di un’apertura di questo genere sarebbero molto importanti, e non solo in termini economici. Pensiamo a cosa possa significare per una famiglia, e soprattutto per dei bambini e dei giovani, sentirsi parte integrante della società in cui vivono e lavorano, sentirsi portatori degli stessi diritti e doveri di chi gli sta intorno. L’emarginazione genera rancore, odio, rende inevitabilmente arrabbiati contro chi ti esclude. L’integrazione, quella piena e sincera, dà e genera fiducia, coesione, identità collettiva. E questo aiuta a prevenire malesseri sociali, conflitti, criminalità. E aiuta a fare fronte comune contro i problemi e le crisi, in nome di un Paese che non è soltanto di quelli che in qualche modo se lo sentono nel sangue, ma di tutti quelli che lo hanno scelto con passione, determinazione e amore.
La Stampa 23.11.11
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“Oltre mezzo milione i bimbi venuti alla luce in Italia”, Karima Moual
«Quella bambina mi ha chiesto di dov’ero. Italiana le ho detto. Eppoi gli ho chiesto di dov’era lei. Italiana, mi ha detto». Fa sorridere e spiazza la naturalezza con la quale Amira, figlia di padre algerino e madre marocchina, si dice italiana, nel conoscersi al parco con Chiara. Età 5 anni entrambe. Fa sorridere ma ci fa anche scoprire dal vero quello che sta nascendo e crescendo nel nostro paese: i nuovi italiani.
Peccato che la consapevolezza orgogliosa di Amira, nel tempo, come oggi denunciano le seconde generazioni che hanno 18, 20 e 30 anni, andrà ad affievolirsi, nell’insofferenza giorno per giorno nel non essere riconosciuti come italiani. Fa ben sperare in questo senso la presa di posizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha sdoganato la parola “follia” in merito alle attuali leggi sull’immigrazione e della cittadinanza in particolare. Leggi anacronistiche, perché l’Italia ormai da più di 30 anni è un Paese di immigrazione con i suoi nuovi figli.
Fino a oggi, le proposte per dare subito la cittadinanza alle seconde generazioni, almeno una quindicina solo nell’ultima legislatura, non hanno fatto strada in Parlamento. Non c’è riuscito nemmeno il progetto di legge Sarubbi-Granata, una delle rare proposte trasversali di questi anni, firmata da esponenti di tutte le maggiori forze politiche, ovviamente Lega Nord esclusa.
Il salto è appunto tra lo jus soli e lo jus sanguinis. La legge in Italia non prevede il diritto di cittadinanza acquisito per il semplice fatto di essere nati in Italia. La condizione giuridica dei bambini di origine straniera nati in Italia è da un lato strettamente legato alla condizione dei genitori: se i padri ottengono la cittadinanza – dopo 10 anni di residenza legale – questa si trasmette anche ai figli. Dall’altro, la legge prevede che i minori di origine straniera nati in Italia possano fare richiesta di cittadinanza al compimento del 18° anno di età (ed entro il compimento del 19°) a condizione che siano in grado di dimostrare di aver vissuto ininterrottamente sul territorio italiano. In questo quadro la condizione di questi bambini è esposta a una serie di fragilità di natura burocratica, che di fatto ne rendono difficile l’acquisizione dei requisti previsti dalla legge.
Stiamo parlando di 1 milione di figli di immigrati. Più della metà sono nati qui, ma sono considerati stranieri/immigrati pur se mai sono emigrati. Di fatto a loro viene impedito di sentirsi pienamente italiani. Sono schiavi del permesso di soggiorno, non possono andare in gita se lo stanno rinnovando, non vestono la maglia azzurra nelle competizioni sportive. Di loro ne abbiamo parlato sul Sole attraverso la serie It/alieni. Storie incredibili di chi come per esempio Donia, per un errore di registrazione della sua nascita all’anagrafe (dove risultava fatto un mese dopo) si è vista al 18° anno con la presentazione della domanda di cittadinanza rifiutata. Il suo caso è stato poi risolto. Ma molti altri non hanno la sua fortuna.
Il Sole 24 Ore 23.11.11