Chiedo ai miei alunni di otto anni se considerano il loro compagno di classe Hassan e gli altri alunni di origine straniera presenti in classe – nati in Italia ma con i genitori di origine straniera – dei bambini italiani o stranieri. Tutti rispondono che sono italiani. Tranne due, che specificano: «Per me Hassan, per esempio, è italo-marocchino». Ecco risolto il problema della cittadinanza per i bambini. Con semplicità, lucidità, fermezza.
Forse perché i bambini vengono dal futuro, come ha scritto il poeta Andrea Zanzotto. Ascoltando le loro parole, noi adulti abbiamo la possibilità di parlare con chi sarà adulto domani. Di vedere come sarà domani il nostro mondo, quando noi saremo vecchi o non ci saremo più.
L’intervento deciso di Giorgio Napolitano riapre con forza un tema centrale per l’Italia. Negare la cittadinanza italiana ai bambini che nascono nelle nostre città è sicuramente «un’autentica follia, un’assurdità». Nessuno più dei docenti italiani sa quanto sia vera e appassionata questa aspirazione. Un’altra mia alunna di qualche anno fa, Vera, undici anni disse in classe con semplicità: «Io sono nata in Italia, però mia mamma e mio papà sono albanesi. Io ho fatto l’asilo qui, la scuola qui. Vorrei chiedere al maestro due cose. La prima cosa è questa: io sono italiana o albanese o tutti e due? La seconda: ma io, se non mi sono mai spostata da qui, sono immigrata?».
A queste domande noi adulti italiani, per troppo tempo, non abbiamo saputo rispondere. Perché la nostra legge al riguardo è vecchia, fa riferimento a una concezione ottocentesca che immagina l’identità legata al sangue, più che al luogo in cui noi nasciamo, viviamo e cresciamo. A differenza di quanto accade negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi europei, per esempio, che sono certamente, almeno su questo problema specifico, molto più evoluti dal punto di vista legislativo. Napolitano ieri ha parlato della necessità di «acquisire nuove energie in una società per molti versi invecchiata se non sclerotizzata». Ad ascoltarle bene, le sue parole assomigliavano quasi a un appello al governo italiano. In particolare ad Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio e nuovissimo ministro della Cooperazione e dell’integrazione sociali, per «riprendere politiche di integrazione che hanno uno sviluppo ormai lontano» e arrivare al più presto a una nuova legge sul diritto di cittadinanza. Quasi ci fosse la volontà di girare finalmente pagina rispetto ai recenti governi di centrodestra che, di fatto, in questi anni hanno sdoganato contro i migranti parole come “razzismo” – che non sentivamo dalla fine della Seconda Guerra mondiale. E lo hanno fatto senza alcun pudore, quasi che “razzismo” fosse diventato sinonimo di una nuova identità nazionale. Ora il clima politico in Italia è cambiato e ci sono le condizioni per cambiare. E per rilanciare con convinzione la campagna per i diritti di cittadinanza “L’Italia sono anch’io” cui aderiscono Acli, Arci, Caritas Italiana, Cgil, Emmaus Italia, Fondazione Migrantes, Ugl, Rete G2 – Seconde Generazioni e tante altre associazioni della società civile. Come sostiene Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia e presidente del comitato promotore, ormai si fa strada la consapevolezza che «una riforma non è più rinviabile». Per questo la mobilitazione prosegue in tutto il Paese per due leggi di iniziativa popolare affinché questi italiani di fatto, ma non di diritto, che nascono, crescono e vivono in Italia, siano anch’essi le risorse morali e intellettuali del nostro futuro.
La Lega Nord, che si è già buttata in una disperata campagna elettorale in cui si ripetonoparole a vanvera, si è dichiarata ovviamente pronta «a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze». Che dire? Vorrei rispondere con le parole di Damian, un alunno di 10 anni con i genitori di origine albanese: «Secondo me i bambini, se non sapevano che erano nati tutti in paesi diversi, era più facile andare d’accordo. Anche da grandi».
Di fronte alla diversità, qualsiasi diversità, il sentimento prevalente nei bambini e nei ragazzi che nascono e crescono oggi in Italia è la curiosità e la solidarietà. Per tanti, troppi adulti, invece, è stata la paura: c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che forse possiamo imparare: dai bambini e dal nostro Capo dello Stato. Ascoltiamoli attentamente. E muoviamoci.
L’Unità 23.11.11