attualità, cultura

"La cultura come motore di sviluppo", di Andrea Carandini*

Caro direttore, se il nuovo governo fondasse, in mezzo alla crisi, una politica della cultura? Poco si ricava dal passato: alle ideologie scadute è succeduta la gestione dell’emergenza tappando i buchi e quella degli eventi gratificando i politici. Né è possibile tornare alla spesa di un tempo: vi è stato un calo continuo dei finanziamenti (salvo il Lotto escogitato da Veltroni), fino ai tagli finali.
Dobbiamo tornare alla Costituzione, stiracchiata in questi anni da letture distorte, che invece va rispettata secondo le interpretazioni della Corte Costituzionale e le formulazioni del Codice dei beni culturali. Per esse la tutela è riservata allo Stato, ma questa supremazia è mal digerita, tanto che nessun piano paesaggistico è stato ancora approvato dallo Stato e dalle Regioni, come il Codice esige. Si è preferito sparpagliare cemento con «piani casa», piuttosto che riprogettare e ricostruire brutture e degradi. E si è anche approfittato dei «piani casa» per sforzare il Codice, come si è tentato nel Lazio; per non dire dei tentativi ripetuti, per fortuna respinti, di diminuire in materia i poteri dei soprintendenti.
Il nostro ministero è stato tra i due più colpiti dai tagli di Tremonti: mai si era vista tanta avversione alla cultura. L’organico del ministero è ridotto ai minimi termini: troppi interim, funzionari costretti a esaminare pratiche delicate in cinque minuti, saperi tradizionali che si perdono, nuove saperi che non si affacciano… Non è quindi sopportabile il taglio del 20 per cento all’organico che si prospetta: perderemmo oltre 30 funzionari e avremmo un esubero di oltre 3000 dipendenti su 21000. Saremo costretti, per salvare le soprintendenze, a mandare in trincea direttori regionali, direttori generali? Ben vengano dunque le 168 nuove assunzioni, ormai certe.
Per gli investimenti abbiamo un poco più un terzo di quanto il ministero, pur tanto ridotto, riesce a spendere. Tutelare presuppone non soltanto dire «no» ma mantenere il patrimonio, e ciò implica investimenti. Siamo molto al di sotto di quel che potremmo definire il limite minimo di funzionalità che la Costituzione impone. Se la condizione dovesse perdurare, i beni verrebbero danneggiati in modo irreparabile. I fondi di investimento devono pertanto risalire — si sono aggiunti recentemente un’ottantina di milioni di euro e 105 per Pompei — fino ad arrivare ad almeno ai 500 milioni annui (ne abbiamo circa 180).
Per avviare un progetto della cultura organico, servirebbe un ministero con competenze allargate alla produzione culturale, sia artistica sia imprenditoriale, e al turismo culturale. Cultura viene da colere: coltivare, abitare, quindi non soltanto l’alta cultura. Per dare al ministero la importanza che gli spetta, bisogna ricordare che il nostro patrimonio e la nostra creatività sono le fonti della nostra identità e della stessa capacità di essere cittadini pensanti e sono anche le fonti necessarie per consentire agli asiatici di capire radici e ragioni della civiltà occidentale. Ma siamo preparati al Global Tour? Bisogna poi avere fiducia nell’amministrazione. È vero che andrebbe ringiovanita e dotata di nuove competenze gestionali, informatiche e comunicative, ma essa rappresenta comunque il meglio di cui disponiamo per la tutela. Altro discorso è l’aiuto sistematico che le università potrebbero dare alla conoscenza del patrimonio, ancora da inventare.
Sono stati sperimentati di recente manager e commissari, con risultato indiscutibile soltanto per l’archeologia di Roma, perché il Commissario era Roberto Cecchi, il funzionario più competente di rischio sismico e di manutenzione programmata. L’esperienza fa concludere che serve una managerialità intrisa di conoscenza specifica, perché se nel campo delle merci è facile saltare da un campo all’altro, entrare da fuori nella cultura è arduo. Bisogna insomma motivare la squadra amministrativa, rendendola ad un tempo coesa e aperta verso le competenze esterne. Per ottenere ciò servono riunioni periodiche tra un ministro assiduo e regista e i vertici del ministero, finora mai avvenute.
In tempi di vacche magre non vi sono risorse per la cultura, pensano i più; come se la cultura servisse ancora soltanto ai piani alti della società, come avveniva nel mondo industriale, quando primeggiavano i borghesi. Ma nel mondo post-industriale e del terziario, il sapere è collegato strettamente al fare, per cui la cultura serve anche ai piani intermedi della società, all’intero ceto medio. È oggi immaginabile uno sviluppo che non sia anche crescita della ricerca e della cultura? Ecco il rivolgimento che è chiamato a compiere questo governo di meritevoli: integrare beni e produzioni culturali nella strategia principale del Paese. Invece di vantare l’assurdo 75 per cento dei beni culturali mondiali e di discettare della cultura come «volano» dell’economia, delineiamo un grande progetto di sviluppo che includa la cultura e attuiamo qualche impresa, esemplare e concreta. Occorre spiegare agli italiani come il ministero, più che un ostacolo, sia un mezzo per progettare uno sviluppo compatibile della patria, che non dissipi i beni pubblici e li trasmetta ai figli. Se la valorizzazione del patrimonio deve essere innanzitutto storica e artistica, non servono cifre enormi: per didascalie che raccontino i contesti delle opere mobili e che facciano apprezzare quelle immobili; per portali informatici che raccontino città, campagne, la patria tutta, che ancora mancano. Mostrare singoli feticci o cumuli di capolavori, senza ricerca e racconto alcuno, significa intrattenere diseducando. In tempi di penuria tutto deve essere finalizzato a un progetto, unendo i mezzi dello Stato, degli enti locali e dei privati, condividendo progettazioni, iniziative e gestioni. Bisogna imparare a valutare il piccolo ma utile, come aggiustare una gronda a Ercolano, che notizia non fa ed evita un disastro. Alcuni problemi da affrontare? L’Aquila: dove bisogna tornare a una gestione normale; Pompei: troppe api intorno al miele europeo e tra queste la costosa Invitalia, per cui barra dritta seguendo il progetto varato dal ministero; la grande Brera, che è senza un euro e ne servono 150 milioni, per non dire della ristrutturazione e dei debiti degli archivi, del museo di Reggio da finir di pagare…
Signor ministro Ornaghi, le auguro buona fortuna. Il Consiglio superiore è un grande deposito di esperienze e pareri e da esso può attingere prima di prendere decisioni. Generalmente è stato negletto.

*Presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali

Il Corriere della Sera 22.11.11