Il tempo stringe. Mancano quaranta giorni per disinnescare la bomba Fiat. Per evitare che dal primo gennaio il gruppo di Torino diventi un luogo di scontro esclusivamente ideologico.
Uno scontro «in grado di far scoppiare le contraddizioni di tutti: del governo perché non partirebbe bene, e di Cisl e Uil». Sono parole di Vincenzo Scudiere, segretario nazionale della Cgil, una lunga militanza in quella che fu la componente socialista del sindacato di corso d´Italia. Non certo un barricadero. Scudiere avverte un pericolo che, con il suo linguaggio, segnala anche il segretario nazionale della Fiom, Giorgio Airaudo: «Dobbiamo evitare che nella Fiat prevalga l´estremismo». Si potrebbe osservare che il consiglio sarebbe utile anche all´interno della Fiom, dove ieri il presidente del Comitato centrale, Giorgio Cremaschi, accusava la Fiat di «fascismo aziendalistico». Ma è ormai evidente che il Lingotto e il sindacato di Landini hanno ambedue diverse anime al loro interno.
L´effetto dell´estensione a tutto il gruppo Fiat (sia Fiat spa che Fiat industrial) dell´accordo di Pomigliano (o similari) è che 70 mila lavoratori italiani, non potranno essere rappresentati in fabbrica dal sindacato che hanno votato di più nei 112 anni di vita della Fiat. Un vulnus democratico evidente che non si può giustificare con interpretazioni da azzeccagarbugli sull´articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Articolo modificato da un referendum per ampliare la rappresentanza in fabbrica e non per ridurla. Il nodo che ha segnalato ieri Scudiere e con lui l´intera Cgil, è quello di un articolo di legge che, dopo la modifica referendaria, è diventato un mostro giuridico perché finisce per legare la rappresentanza in fabbrica alla linea politica di un sindacato e non alla sua capacità di rappresentare i lavoratori. Un vulnus che è difficile superare con la scusa che quei lavoratori hanno approvato gli accordi in referendum in cui l´alternativa era tra il sì e il licenziamento.
Si può uscire da questa impasse? E´ la scommessa da vincere per disinnescare la bomba Fiat. Il primo nodo importante da sciogliere per il nuovo ministro del welfare, la torinese Elsa Fornero. Trovare una strada per distinguere due diverse questioni: l´obbligo per un sindacato (in questo caso la Fiom) di rispettare anche gli accordi che non ha firmato e l´obbligo per un´azienda di avere in fabbrica i sindacati rappresentativi del voto dei lavoratori, a prescindere dalla loro linea politica. Il primo obbligo va a favore dell´impresa, il secondo a favore dei lavoratori. Si tratta in sostanza di affiancare alla clausola di responsabilità sindacale, che tutela la certezza degli investimenti, una clausola di democrazia, che tutela il diritto dei lavoratori al pluralismo sindacale in azienda. Il ministro Fornero ha ottimi rapporti sia con la Fiat che con la Fiom (ha partecipato da esperto esterno al congresso torinese del sindacato di Landini un anno e mezzo fa). Dunque ha l´autorevolezza e la competenza giuste per cercare di disinnescare la bomba. Se non ci riuscirà, la trama del film in programma da gennaio è già scritta, anticipata dall´annuncio di Landini ieri: «Stiamo preparando un libro bianco sulle discriminazioni subite dalla Fiom alla Fiat». Seguirà una valanga di ricorsi legali contro gli accordi che mettono la Cgil fuori dalle fabbriche in ciascuno dei 180 luoghi di lavoro del gruppo di Torino. In quel caso gli unici ad aumentare le commesse e gli stipendi sarebbero gli avvocati.
La Repubblica 22.11.11
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“Chi cerca la rottura”, di Rinaldo Gianola
Il governo di impegno nazionale di Mario Monti è appena partito, ma Sergio Marchionne ha già nostalgia dell’ex ministro Maurizio Sacconi e della sua linea di rottura sociale e di divisione sindacale. Non ci sono tregue in casa Fiat, nessuno si ferma nemmeno davanti al momento drammatico che vive l’Italia. La disdetta dei contratti e degli accordi sindacali da parte della Fiat, annunciata ieri, era una notizia attesa dopo le condizioni imposte alle fabbriche italiane e il divorzio dalla Confindustria, ma si poteva sperare che in una circostanza tanto difficile, come quella che oggi vive il Paese, anche i “falchi” del Lingotto mostrassero un maggior senso di responsabilità evitando di provocare con gesti di rottura ulteriori tensioni e polemiche. Invece Marchionne ha buttato un paio di petardi tra i piedi del governo Monti che muove i primi passi, cancellando qualsiasi illusione relativa alla possibilità che la Fiat contribuisca agli sforzi per favorire la coesione sociale. Peraltro ciò avviene in un passaggio delicatissimo dell’Europa, divisa e incapace di prendere le decisioni necessarie ad arginare gli effetti più duri della crisi, come dimostra il crollo dei mercati e il braccio di ferro tra la cancelliera Merkel e la stessa Commissione di Bruxelles. Dal primo gennaio 2012 dunque in tutti gli stabilimenti della Fiat si applicherà il modello Pomigliano: più flessibilità, turni più duri, pause tagliate, controlli e sanzioni più stringenti sulle assenze per malattia, rappresentanze di fabbrica non più elette dai lavoratori ma scelte dai soli sindacati firmatari delle intese aziendali. Ben lontano dall’essere un’eccezione, come molti anche a sinistra s’illudevano nell’estate 2010 quando si svolse il contrastato referendum nella fabbrica campana, il “porcellum” di Pomigliano fa scuola e diventa, nei fatti, il nuovo contratto dell’auto. Un modello che dalle fabbriche della Fiat si allargherà alle altre imprese del gruppo e alle aziende dell’indotto. Marchionne, bontà sua, è disponibile a incontrare i sindacati per definire un nuovo quadro per regolare i rapporti. Ma manca poco più di un mese alla scadenza, molti lavoratori sono in cassa integrazione, Mirafiori e Pomigliano balbettano, Grugliasco è ferma, Termini Imerese chiude. Come possono i lavoratori sostenere, vigilare, eventualmente mobilitarsi? La Fiat il suo nuovo contratto l’ha già scritto, i sindacati devono solo apporre la firma. Questa è la filosofia di Marchionne, lo svizzero. Ora il problema non è solo dei sindacati e dei lavoratori. Il caso Fiat è una priorità del governo chiamato a mostrare subito una discontinuità col passato. Il governo Monti nasce con l’obiettivo di fronteggiare l’emergenza economica chiamando il Paese a cooperare, a fare sacrifici, a impegnarsi. Questo progetto può essere realizzato solo se Monti e i suoi ministri riusciranno a difendere la coesione sociale e ad opporsi a piani di divisione, di destabilizzazione. Monti ha già detto nelle aule parlamentari che intende richiamarsi nella sua azione all’accordo interconfederale del 28 giugno scorso: solo da qui si può partire per costruire un nuovo progetto di risanamento e di sviluppo. Se, invece, qualcuno pensa come ha già detto l’ex ministro Sacconi che il nuovo esecutivo si muoverà nel solco dell’articolo 8, cioè introducendo artificiosamente novità per agevolare i licenziamenti o per abbassare la soglia di protezione dei lavoratori, allora sarà certamente più arduo tenere unite le forze sociali responsabili, senza le quali non sarà possibile portare l’Italia fuori dall’emergenza. La vicenda Fiat, inoltre, offre a Monti e al suo governo l’opportunità di rintuzzare coi fatti i sospetti di essere vicini o troppo sensibili ai “poteri forti”. Il presidente del Consiglio si è molto risentito per queste accuse. Bene, c’è l’occasione per spazzare via ogni dubbio. Il superministro dello Sviluppo economico Corrado Passera, che conosce assai bene uomini, conti e strategie del Lingotto per il suo passato ruolo in Banca Intesa San Paolo, potrebbe chiamare l’amministratore delegato della Fiat per chiedere finalmente di illustrare il piano di investimenti, gli obiettivi di produzione e di vendita, i livelli di occupazione del piano “Fabbrica Italia” perchè gli scenari e gli obiettivi annunciati da Marchionne nell’aprile del 2010 al Lingotto restano incerti e avvolti nelle nebbia. Il governo Berlusconi non l’ha mai fatto, basta poco al nuovo governo per far meglio
L’Unità 22.11.11
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“Fiat cancella tutti gli accordi”, di Massimo Franchi
Una decisione scontata ed attesa, ma non per questo meno storica e carica di conseguenze. Come per l’addio a Confindustria del 3 ottobre, Fiat annuncia la disdetta «da tutti i contratti e accordi collettivi aziendali e territoriali vigenti» con una letterina stringata (questa volta15righe firmate dal Responsabile delle relazioni industriali Giorgio Giva) inviata ai sindacati. Si tratta dunque della volontà del Lingotto di estendere alle altre fabbriche italiane il cosiddetto modello Pomigliano. Unica differenza: non servirà come in Campania la nascita di una Newco: con l’uscita da Confindustria, nelle altre fabbriche la Fiat non avrà bisogno di questo stratagemma, manterrà le stesse denominazioni e gli operai non dovranno dunque essere licenziati e riassunti. In questo modo tutti i 70mila lavoratori Fiat del nostro Paese (gli stabilimenti auto di Cassino, Melfi e Atessa, quelli dei camion Iveco, quelli dei trattori e movimentazione terra Cnh, quelli che producono motori come Serra Pratola e la componentistica come Magneti Marelli) avranno un contratto a parte, al di fuori di quello nazionale, con pause ridotte (10 minuti in meno), più turni (18), straordinario aumentato (120 ore obbligatorie, 40in più dell’attuale) e, soprattutto, una diversa rappresentanza sindacale. Si passa dalle Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) alle Rsa (rappresentanza sindacali aziendali). I lavoratori non voteranno più i loro rappresentanti che saranno invece scelti dai sindacati. Ma qua entra in gioco la controversia con la Fiom che non ha firmato i contratti di Pomigliano e Mirafiori e che quindi non avrebbe diritto a rappresentanti e alle trattenute sindacali degli iscritti, che finanziano direttamente i sindacati. I metallurgici della Cgil presentarono ricorso sul caso di Pomigliano al tribunale di Torino che ad agosto ha dato ragione a Fiat sulla legittimità della Newco di Pomigliano, ma ha dato torto alla Fiat sanzionando il suo comportamento come antisindacale. Il problema ora è quello di stabilire se e come la Fiom potrà rimanere nelle fabbriche. AZIONE DI CONTRASTO Sul punto il segretario generale Maurizio Landini ha già anticipato che in caso di esclusione, la decisione verrà contrastata in ogni modo con ricorsi legali ad ogni livello. Oggi spiegherà la strategia in una conferenza stampa, ieri è toccato a Giorgio Airaudo rispondere e tirare in ballo il nuovo governo: «La decisione di Fiat non ci stupisce ed è coerente con ciò che Marchionne sta portando avanti. È una scelta politica e tocca alla politica chiederne conto. Il governo Berlusconi non l’ha mai fatto e allora noi chiediamo al governo Monti di fare alla Fiat le stesse domande che ha fatto la Consob e, diversamente da questa, esigere delle risposte. Noi ci auguriamo ancora che Marchionne faccia come Berlusconi: si faccia da parte», chiude Airaudo. I sindacati “firmatari” Fim, Uilm, Ugl e Fismic ieri hanno chiesto in coro la rapida convocazione diuntavolo per mettere a punto un contratto di gruppo. Ieri Marchionne era a Londra alla conferenza degli industriali britannici. Nessun riferimento diretto alla “lettera”,ma una frase spiega bene il suo pensiero al proposito: «L’alleanza con Chrysler – ha detto – ci offre la straordinaria opportunità per affrontare la situazione nei nostri stabilimenti italiani, dove i livelli di produttività sono stati per anni troppo bassi per essere competitivi », «abbiamo agito in maniera autonoma per eliminare le inefficienze nelle nostre linee di produzione in Italia e assicurare loro un futuro». Tantissime le reazioni nel mondo politico. Nel Pd Cesare Damiano parla di una «scelta destabilizzante e contraddittoria», simile il giudizio di Stefano Fassina che la definisce «preoccupante» e auspica «che il governo convochi quanto prima l’azienda e i sindacati per riaprire un confronto costruttivo». Pierferdinando Casini invece vede un segnale «del fatto che Marchionne pensa di più all’estero che all’Italia», mentre per Di Pietro «la Fiat chiude il cerchio, annunciando di fatto l’abbandono del nostro Paese, individuando nei lavoratori il capro espiatorio».
L’Unità 22.11.11