Il clamore delle discussioni e dei contrasti attorno alla giustizia penale, e a un certo numero di processi in particolare, ha oscurato, ormai da molti anni, l’attenzione che merita l’altro ramo della giustizia ordinaria, quello della giustizia civile. Eppure è soprattutto questa che più soffre e che maggiormente espone l’Italia alle critiche e alle condanne provenienti dall’Europa e dagli organismi internazionali. Nell’amministrazione della giustizia penale sono certo in gioco interessi e diritti fondamentali: la libertà, il patrimonio, l’onore delle persone che vi sono implicate. Ma le controversie civili riguardano tutti i cittadini nella loro vita ordinaria, quella privata e quella familiare, il lavoro, le attività commerciali. Si tratta di campi in cui vengono in discussione diritti fondamentali delle persone: diritti che sono offesi o addirittura negati se non è assicurato un efficiente servizio giustizia.
Sono ormai trent’anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per non aver assicurato la conclusione di procedimenti in tempi ragionevoli. E la Corte ha dovuto constatare che non si tratta solo di numerose violazioni singole, ma di una pratica sistematica. È il sistema nel suo complesso che non è in grado di produrre sentenze in tempi ragionevoli. Si tratta di una carenza strutturale che incide sui diritti, che sono oggetto delle controversie civili. Ed è, per l’Italia, insieme alle condizioni delle carceri e al trattamento degli immigrati, il tema che più la espone sul fronte della protezione dei diritti fondamentali.
Le denunzie e le richieste di riforme capaci di risolvere questo problema, non hanno fino ad ora avuto risposte efficaci. Da qualche tempo però si sono levate altre voci critiche, mosse da considerazioni di natura economica. È possibile che in questo, come in altri campi, l’urgenza economica spinga ad affrontare problemi che questioni di principio non sono riuscite a smuovere? Cerchiamo di non perdere anche l’occasione che si presenta con il nuovo governo. Il presidente Monti ne ha fatto menzione nel discorso programmatico al Senato.
Il governatore della Banca d’Italia Draghi, nelle sue Considerazioni finali dello scorso 31 maggio, ha indicato in un punto percentuale del Pil annuo la possibile incidenza negativa della disfunzione della giustizia civile. Una quantificazione frutto di calcoli difficili e presuntivi, che indica comunque un ordine di grandezza allarmante e tale da rendere interessante, anche solo dal punto di vista economico, un incisivo impegno di riforma.
Pendono in Italia oltre cinque milioni e mezzo di processi civili. La loro distribuzione sul territorio, tra i diversi uffici giudiziari, è molto diseguale e apparentemente senza rapporto con il traffico economico e con l’entità e composizione sociale della popolazione. Così ad esempio nel territorio della Corte d’Appello di Torino pendono circa 175.000 procedimenti, mentre nel territorio di quella di Bari ne sono pendenti quasi 500.000. Nella Corte d’Appello di Milano pendono circa 330.000 procedimenti, mentre in quella di Napoli ve ne sono oltre un milione (il 20% del totale nazionale) e a Roma oltre 800.000. Numeri che non sembrano riflettere differenze oggettive dei vari territori. Solo differenze legate alla maggiore o minore litigiosità locale? Difficile crederlo. C’è da chiedersi, ad esempio se sempre e dappertutto le cause civili da cancellare dal ruolo scompaiano effettivamente dalle statistiche o invece continuino a mettere in mostra un carico di lavoro maggiore del reale (e quindi meritevole di maggiori organici di personale e maggiori risorse). Oppure se le cause seriali, che andrebbero riunite e rapidamente definite, sono invece separatamente introdotte dagli avvocati e tali mantenute dai magistrati. Domande cui occorre dare risposta per poter apprestare rimedi. Perché le differenze di produttività degli uffici sono davvero impressionanti, certo legate a problemi di organizzazione degli uffici giudiziari e di modo d’essere e di agire dell’avvocatura locale. La giacenza media delle cause civili risulta di 280 giorni al Tribunale di Torino, di 304 a Milano, di 365 a Roma, di 449 a Napoli e di 776 Bari.
Come ha recentemente ricordato il vicepresidente del Csm Vietti, riprendendo dati del Consiglio d’Europa in un suo agile e utile libro sull’amministrazione della giustizia, non v’è un problema generale di produttività dei magistrati italiani. Ma occorre assicurare che tutti gli uffici giudiziari lavorino allineandosi sui migliori standard di produttività già presenti in Italia (e lo strumento del processo telematico va generalizzato). Il ministro della Giustizia, responsabile per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi, ha la possibilità di avvalersi di esperti di scienza dell’organizzazione e di analisi economica, da mettere accanto a magistrati ed avvocati per identificare le pratiche virtuose e diffonderle (con opportuno uso di sollecitazione e autorità). Il Csm, pur in un ambito di competenza diverso, ha accumulato una notevole esperienza in proposito e potrebbe svolgere un’utile opera in coordinamento con quella del ministero. È però chiaro che è necessario intervenire in modo integrato su tutti i lati dell’universo giudiziario, non esclusi gli avvocati. Non si può infatti ignorare che vi è una componente patologica della domanda di giustizia civile, che pone l’Italia ai primissimi posti tra i Paesi del Consiglio d’Europa per numero di cause iniziate, e che l’avvocatura può esercitare una funzione di filtro delle cause ingiustificate oppure di moltiplicazione di esse. In proposito, ad esempio, Daniela Marchesi, esperta di analisi economica del diritto, ha sottolineato l’incidenza del metodo di calcolo delle tariffe professionali, come incentivo alla moltiplicazione delle cause civili. La lotta alla «componente patologica» deve accompagnarsi ad iniziative di riduzione di quella «fisiologica». Se in altri Paesi europei la quantità di cause introdotte presso i giudici è minore, è anche perché sono disponibili e funzionano mezzi alternativi di risoluzione delle controversie. La recente legge che ha previsto l’obbligo di esperire un tentativo di mediazione tra le parti, prima di investire il giudice, sta cominciando a dare i primi risultati positivi. I centri di mediazione delle Camere di commercio danno in genere buoni risultati. Ma anche qui vi sono grandi diversità sul territorio. Il ministero potrebbe forse operare per far sì che tutti gli Ordini degli avvocati aprano i centri per la mediazione. Al nuovo ministro si presenta un lavoro complesso e difficile. Le condizioni di urgenza nazionale potrebbero però darle la forza che è mancata ai ministri che l’hanno preceduta.
La Stampa 18.11.11