È la coesione solidale il filo comune tra l’idea di nazione e l’idea di Europa che si legge nel discorso di insediamento del presidente Mario Monti al Senato. Non a caso anche il disegno del nuovo Esecutivo prevede, a questo scopo, ministeri mai esistiti prima come è quello della Coesione territoriale il cui titolare è Fabrizio Barca, ma anche ‐ seppure più indirettamente ‐ quello della Cooperazione interna e internazionale governato da Andrea Riccardi.
Si archivia, come ideologia – forse l’ultima – la difesa degli interessi locali, diventata troppo a lungo deriva «localista», e quella degli interessi nazionali declinati in Europa secondo un’idea darwiniana del ‘mors tua vita mea’ risultata il vero, drammatico tradimento rispetto all’Europa dei padri (citati non a caso ieri da Monti) e anche delle ragioni stesse della nascita dell’euro.
I piccoli o grandi egoismi, mossi in questi anni da mani invisibili che, unite, non sono state in grado di generare quell’interesse comune che invece preconizzava Adam Smith, hanno mostrato tutta la loro carica di devastazione. In questi anni, ad esempio, oscurare il capitolo sul Mezzogiorno o gestirlo solo in termini folkloristici (la Banca del Sud, ad esempio) ha anche rischiato di vanificare i grandi successi che l’azione del ministro Roberto Maroni ha avuto nella lotta alla criminalità organizzata.
In Italia e in Europa è ormai chiaro che la lotta tra piccoli egoismi non crea mai un vincitore ma solo tanti sconfitti.
Con il discorso di ieri è emersa con chiarezza la discontinuità nell’idea di interesse comune, laddove adesso si allarga fino a diventare orgogliosamente quel «l’Europa siamo noi» rivendicato dal premier. L’interesse comune troppo spesso è stato l’interesse delle comunità più o meno piccole: alla prova dei fatti e della storia quella somma di micro interessi non ha creato un benessere più grande. Anzi, ha contribuito decisamente al decadimento nazionale, all’impoverimento civile ed economico, dunque al calo della fiducia. Il Paese è stato percepito come dilaniato da corporazioni e da campanili e valutato quindi come inaffidabile perché guidato da visioni corte, non in grado di includere, in quegli orizzonti così limitati, un’idea solidale di Paese e tantomeno un’idea comune di Europa. Non che il duo Merkel-Sarkozy abbia profuso grandi sforzi per indurre l’Italia a fare la parte che merita da sempre nello scenario europeo, ma tant’è. Hanno avuto gioco facile.
Sul fronte interno e sul fronte europeo ora il Governo Monti dovrà ricostruire ponti solidi, a gittata lunga, infrastrutture immateriali che danno nerbo alla credibilità interna e internazionale. Alla voce coesione solidale va ascritto anche lo sforzo di ridare peso al senso dello Stato, rinsaldando le relazioni civili e istituzionali per uscire ‐ come ha detto Monti ‐ dalla trappola della degenerazione del senso della famiglia che diventa familismo, del senso della comunità che diventa localismo, del senso del partito che diventa settarismo.
Un’Italia così ridisegnata consentirebbe di usare al meglio le risorse pubbliche, incentiverebbe la mobilità sociale e riattiverebbe l’ascensore del talento e del merito a tutto vantaggio dei giovani, finalmente cuore dell’azione governativa (ed è stato assurdo vedere sfilare ieri cortei pregiudizlamente contrari al Governo, senza che avessero nemmeno sentito il discorso programmatico del nuovo premier).
Da oggi c’è un’Italia che sa quanto conti puntare anche sul soft power, il potere leggero (ma fortissimo) della tradizione di un Paese pieno di valori civili, intelligenze, storia e cultura, per recuperare quella moneta della credibilità che tanto manca oggi. Insieme a quella del rilancio dello sviluppo, è forse questa la scommessa più difficile del presidente Monti. E a volerla chiamare con il suo vero nome si chiama ritorno della politica.
Il Sole 24 Ore 18.11.11