In meno di un´ora Mario Monti ha chiuso per sempre una stagione lunga diciassette anni, la seconda Repubblica. Morta e sepolta, fra gli applausi timidi dei congiunti, con un discorso che ha illustrato agli italiani come, rispetto al teatrino televisivo di quasi un ventennio, la politica sia un´altra cosa: questa. La forza delle cose, i soliti problemi di vent´anni fa, intonsi e anzi lasciati marcire dallo show di Berlusconi. L´evasione fiscale, l´esclusione di donne e giovani dal mondo del lavoro, gli sprechi di stato, i feudi del privilegio corporativo, il ruolo dell´Italia in Europa.
È stato un bel funerale. Chi se ne andava si è lamentato soltanto un poco. Il canto del cigno del regime era ridotto ai ragli somari di qualche nostalgico. L´interruzione super cafona di Castelli, mai registrata a un discorso d´insediamento. Il pollice verso di Calderoli. L´ironia ignorante del capo dei deputati Pdl, Osvaldo Napoli, che per criticare il discorso di Monti, troppo proiettato al futuro, cita una celebre frase di Keynes («nel lungo termine saremo tutti morti») e la attribuisce a Galbraith.
Qualcuno doveva pur tenere alta la bandiera cialtrona della seconda Repubblica. Ma è consolante pensare che almeno, nella valle di lacrime e sacrifici dietro l´angolo, non dovremo più farci rappresentare nel mondo da comitive di cialtroni specialisti in inglese e anche italiano maccheronico, ministre uscite dai calendari, macchiette da varietà e dobermann da rissa televisiva.
E stavolta con serenità che si assiste ai comizi da bar all´uscita dall´aula del Senato, con i capannelli di leghisti in uniforme verde e berluscones disperati che ripetono le ultime parole d´ordine del capo. «È la sospensione della democrazia!». «È la sconfitta della politica!». Il senatore Beppe Pisanu li guarda con un misto di preoccupazione e cristiana pietas: «Che dire? Io sono felice, lavoro da due anni a questo obiettivo. Ma capisco che altri non lo siano. Vediamo cosa dirà Berlusconi, come appoggerà il governo Monti. Ma non sottovalutiamo la forza delle cose». Lo scrittore Gianrico Carofiglio, senatore del Pd, prova a rovesciare la questione: «Magari è la vittoria della politica».
Perché chi ha stabilito che quella carnevalata fosse la politica? Chi ha detto che il berlusconismo rappresentasse il solo paese reale? A guardare i volti, le storie, i gesti dei ministri seduti intorno a Mario Monti ognuno può giudicare se si tratti di marziani sbarcati nella capitale o non piuttosto di italiani che conosciamo tutti bene.
Se donne come Anna Maria Cancellieri, Elsa Fornero o Paola Severino siano più o meno improbabili, familiari, rappresentative di Mara Carfagna o Michela Brambilla. Qualcuno dovrebbe spiegarci per quale ragione è strano vedere all´istruzione Francesco Profumo, un rettore che ha trasformato il Politecnico di Torino in un vanto italiano nel mondo, conosciuto a Shangai come in California. Mentre era invece normale avere Mariastella Gelmini, con la sua laurea presa in qualche modo e la seria convinzione che i neutrini viaggino nei tunnel sotto terra.
Era politica quella? Forse, ma soltanto in Italia. In Francia, Germania, Gran Bretagna la maggior parte dei ministri sono tecnici e vengono dalle migliori università del paese. Era quello il paese reale? Ma c´era nel paese reale anche questa Italia che non si vedeva, ma lavorava, studiava, viaggiava e mentre gli altri impazzavano in tv, manteneva in vita le istituzioni, le imprese, le università, la residua grandezza di un paese in declino.
È un´Italia che non fa ridere il resto del mondo e ieri non ha fatto ridere neppure il parlamento. Con voce monotona, come leggesse la lista della spesa, Mario Monti ha elencato una serie di provvedimenti per i quali in Italia servono le rivoluzioni. La lotta vera all´evasione fiscale, a partire dalla tracciabilità del contante e del redditometro. La riforma del fisco e quella della burocrazia, l´accorpamento dei comuni e l´abolizione delle province. Lo smantellamento dei privilegi corporativi, il ritorno dell´Ici e così via. E siccome Monti ha l´aria di chi non si limita agli annunci, sulla schiena dei parlamentari, che di clientele campano, ogni volta era un brivido.
È un programma di classica destra liberale, a metà fra il moderno conservatorismo europeo e la destra storica di Cavour e Minghetti, tanto per chiudere in bellezza l´anno delle celebrazioni unitarie. Come tale è un programma discutibile. Ma è significativo che in Italia non lo discuta tanto la sinistra, quanto la destra populista.
Riuscirà il berlusconismo a sopportare a lungo il peso di tanta serietà? Già ieri tornava a invocare la piazza. Ma gli slogan populisti di colpo sembrano invecchiati, inservibili, perfino patetici. Dall´alto del Quirinale e di un consenso enorme, il presidente Napolitano guarda agli ultimi sussulti eversivi della seconda Repubblica come alla comiche finali. Monti può durare tre mesi o dieci anni, ma non sarà Berlusconi a deciderlo. Saranno i cittadini, l´opinione pubblica, la maggioranza di italiani che la fiducia al governo Monti l´ha già votata.
La Repubblica 18.11.11
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“La ricetta che serve al Paese”, di LUCA RICOLFI
Sì, le parole pronunciate ieri da Mario Monti al Senato sono quelle che, da anni, aspettavamo di sentir pronunciare da un presidente del Consiglio. E questo non tanto per i temi che ha toccato, per gli obiettivi che ha indicato, per i principi che ha enunciato. Molte delle cose sentite ieri, negli ultimi dodici anni le avevamo già ascoltate da Berlusconi e da Prodi: la promessa di abbassare le aliquote, ad esempio, è stata la parola d’ordine di tutti i governi di centro-destra, mentre la formula trinitaria «rigore-crescita-equità» è stata il leit motiv dell’ultimo governo di centro-sinistra.
No, la novità del discorso di Monti è un’altra. La novità sta nell’assemblaggio, ben più che negli ingredienti. Quel che Monti ci ha offerto ieri è una visione dei problemi della società italiana al tempo stesso scontata e nuovissima. Scontata perché, come ha sottolineato egli stesso in un passaggio del suo discorso, le misure per uscire dalla crisi sono le stesse che «gli studi dei migliori centri di ricerca italiani» invocano da anni. Nuovissima perché mai, in nessun discorso dei precedenti presidenti del Consiglio, le priorità del Paese sono state enunciate con altrettanta forza, e in un ordine così preciso.
In questo senso la discontinuità c’è stata davvero, ed è stata una discontinuità con tutti i governi dell’ultimo decennio, non solo con l’ultimo governo Berlusconi.
Qual è il nucleo di tale discontinuità? Qual è l’idea forte, non ovvia, del governo cui il Parlamento si appresta ad accordare la fiducia?
Ognuno di noi, è chiaro, non può che aver provato un moto di gioia, per non dire di felicità, al solo sentir enunciare credibilmente, alcune idee-chiave: responsabilità, promozione del merito, lotta contro i privilegi, riduzione dei costi della politica, valorizzazione del talento dei giovani e delle donne. Però il punto cruciale, il punto che segna una vera svolta rispetto al passato, è la priorità assegnata alle misure per la crescita. Una priorità basata su una amara, per non dire spietata, constatazione riguardo al passato: «l’assenza di crescita ha annullato i sacrifici fatti». E al tempo stesso un messaggio di speranza, perché non si limita ad annunciare nuovi sacrifici, ma ci chiama tutti a raccolta, per far sì che i sacrifici servano a migliorare la nostra vita e quella dei nostri figli. Non a caso, cercando di definire il nuovo esecutivo, Mario Monti ha scelto l’espressione «Governo di impegno nazionale», a sottolineare il contributo attivo che spetterà ad ognuno di noi.
Nel suo discorso di insediamento Monti ha detto in modo piuttosto chiaro che il problema del nostro enorme debito pubblico non lo risolveremo né con una gigantesca imposta patrimoniale, né con lo smantellamento dello Stato sociale, né con la lotta all’evasione fiscale, ma adottando tutte le misure necessarie per modernizzare finalmente l’Italia e consentirle così di tornare a crescere. E fra tali misure ha indicato non solo quelle che producono effetti nel periodo mediolungo, come le liberalizzazioni, ma anche l’unica misura che ha qualche possibilità di produrre effetti significativi nel breve periodo: un significativo abbassamento delle aliquote che gravano sui produttori di ricchezza, ossia lavoratori e imprese.
L’idea centrale di Monti, in altre parole, pare essere quella di utilizzare sia i proventi della lotta all’evasione, sia i margini di manovra impliciti nella delega fiscale, per cambiare radicalmente la composizione del gettito: aliquote più basse su lavoratori e imprese, finanziate contrastando il sommerso e aumentando il prelievo su consumi e patrimoni. Sottostante a tale idea vi è la convinzione che la montagna del debito pubblico italiano – quasi 2000 miliardi di euro – non possa essere seriamente intaccata imponendo anni e anni di lacrime e sangue ai contribuenti, ma solo chiamando le migliori energie del Paese a far crescere un’altra montagna, quella della ricchezza prodotta. Tanto più che di tale ricchezza vi sarà sempre più necessità, visto che il nostro Stato sociale è largamente incompleto, privo com’è di ammortizzatori sociali universali e di politiche contro la povertà e la non autosufficienza.
«Vasto programma», avrebbe forse detto il generale De Gaulle. Ma è precisamente quello di cui l’Italia ha bisogno.
La Stampa 17.11.11