Nell’ultimo decreto l’ex ministro ha fissato al ribasso i criteri di accesso del diritto allo studio. Nel testo anche un passaggio tutto dedicato alla «valorizzazione» dei collegi universitari privati. È l’ultimo colpo di coda del “fu” governo Berlusconi, con cui gli studenti, che oggi scendono in piazza in tutta Italia, dovranno fare i conti. Alla vigilia della “dipartita” da Palazzo Chigi, Mariastella Gelmini è riuscita ad aggiungere un altro tassello alla sua riforma, facendo approvare in extremis dal consiglio dei ministri di venerdì scorso, uno dei decreti più spinosi. Quello per fissare (al ribasso) i livelli essenziali nazionali del diritto allo studio (borse, reddito minimo per accedervi, strumenti per garantirle). Dentro, c’è il temuto aumento delle tasse regionali per il diritto allo studio. Alcune novità, che contraddicono quanto concordato con le Regioni. E una aggiunta a sorpresa, che sa di ulteriore blitz: l’introduzione di un passaggio tutto dedicato alla «valorizzazione» dei collegi universitari privati. Un modo per riaprire l’accreditamento a nuove strutture. Obiettivo caro all’ex ministro. Mache finora non era stato mescolato così apertamente con il diritto allo studio, oggetto del decreto, lungamente discusso, nel tavolo tecnico istituito dal ministro prima, e nella Conferenza Stato-Regioni poi. «Revisione della normativa di principio in materia di diritto allo studio e valorizzazione dei collegi universitari legalmente riconosciuti», recita invece, lo «schema di decreto», che figura tra quelli approvati l’11 novembre nel comunicato della presidenza del Consiglio. Cosa ci sia esattamente sotto questa rubrica è di difficile ricostruzione. Nel sito del governo, il testo non è mai stato pubblicato. Alle camere, a cui deve essere inviato per il parere, non è ancora pervenuto. E anche nelle stanze del ministero, si stenta a trovare chi l’abbia visto. «No, neppure io conosco l’ultima versione, quindi non so dire quanto si discosti da ciò che noi avevamo suggerito», si schermisce lo stesso professor Catalano, presidente del tavolo tecnico e autore della prima bozza di decreto, che risale ormai a mesi fa. Complice il passaggio di consegne, potrebbe anche darsi che la versione definitiva materialmente la stiano ancora scrivendo, suggerisce chi ben conosce le «cattive abitudini » del passato governo. Un modo per bruciare i tempi. E certo in questo caso il ministro di tempo ne aveva davvero poco.
INDISCREZIONI Sotto forma di «indiscrezioni», ad ogni modo, il contenuto finale del decreto è già circolato tra gli addetti ai lavori. E la sostanza è che a pagare le borse di studio a chi non si può permettere l’università saranno gli studenti. L’ultimo lascito del ministro Gelmini: un aumento delle tasse regionali per il diritto allo studio su tutto il territorio nazionale. Non meno di120 euro,non più di200euro. Questi sono i due estremi a cui tutte le Regioni si dovranno ottenere. Un doppio tetto, fissato al rialzo. Con dentro tre scalini contributivi, di 120, 140 e 160 euro, proporzionali al reddito degli studenti. Laddove oggi la media nazionale (tra Regioni che chiedono di più e Regioni che chiedono di meno) è di 110 euro. Non basta. Le Regioni avevano detto chiaramente, durante la conferenza Stato-Regioni, che doveva essere lo Stato a garantire i livelli essenziali del diritto allo studio, anche perché di risorse, dopo gli ultimi tagli, gli enti locali non ne hanno più. Il testo portato in consiglio dei ministri da Mariastella Gelmini prevede invece un contributo a carico delle Regioni. Il vero punto è che le risorse stanziate dal governo sono poche (26 milioni in finanziaria, più 150milioni nella legge di stabilità) per garantire la borsa a tutti gli idonei. Lo scorso anno dei 180mila aventi diritto, 30mila sono rimasti fuori. Invece che rivedere gli investimenti in modo sostanziale, il ministro ha deciso di rivedere i criteri di accesso. Se oggi il reddito medio Isee (che varia da Regione a Regione) per accedere alle borse è di 17mila euro, in futuro dovrà essere più basso: 15mila al Sud, 16mila al Centro, 17mila al Nord. Ma su questa casella anche le “indiscrezioni” traballano. Di certo, il decreto stabilisce che qualunque sarà la cifra fissata, fino a lì paga lo Stato. Mentre, oltre quella soglia, un altro 10% di borse, dovrà essere garantito dalle Regioni. Un meccanismo da azzeccagarbugli, che farà insorgere le Regioni, ma lascerà a secco gli studenti. «Se fossero confermate le indiscrezioni, vorrebbe dire che il ministro ha deciso di superare arbitrariamente quanto condiviso con le Regioni », osserva Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd in commissione Cultura della Camera. «Il mio auspicio – suggerisce – è che questo decreto, che, approvato in fretta e furia in Consiglio dei ministri, non è neppure stato reso pubblico, ritorni sul tavolo del ministro». E con il nuovo ministro, Francesco Profumo, chiedono di confrontarsi anche gli studenti che oggi scenderanno in piazza. «I soldi per il diritto allo studio possono essere trovati per esempio, tassando le case sfitte», suggerisce Federico Nastasi, della Rete universitaria nazionale, che ha pubblicato un compendio assai critico di tutte le proposte avanzate dal ministero, prima del blitz. «La coperta è troppo corta, solo che invece di comprarne una più grande, il governo ha studiato come accorciare le gambe agli studenti», osserva Michele Orezzi dell’Udu. E all’orizzonte, avverte Claudio Riccio, della Rete della conoscenza, c’è qualcosa che preoccupa di più: «Berlusconi nella lettera alla Bce ha ipotizzato di liberalizzare le tasse universitarie, il ministro che dice?»
L’Unità 17.11.11