Herald Espenhahn «è persona preparata, autorevole, determinata, competente, scrupolosa». Quest’uomo è stato condannato a 16 anni e 6 mesi per incendio, omissioni dolose di norme antinfortunistiche e soprattutto per omicidio volontario con la formula del dolo eventuale dagli stessi giudici che scelgono quei cinque aggettivi per caratterizzarne la personalità di manager.
La contraddizione è apparente: proprio in ragione di questo profilo alto la Corte d’Assise torinese l’ha giudicato reponsabile della morte dei sette operai bruciati vivi nel rogo della linea 5 dello stabilimento torinese della multinazionale ThyssenKrupp, la notte del 6 dicembre 2007. Attento e preciso come ha dimostrato d’essere sul lavoro, l’amministratore delegato TK Ast – la spa italiana della multinazionale – «decideva» comunque «di non “fare nulla” in tema di fire prevention nella fabbrica torinese, pur mantenendola attiva, pur continuando la produzione in quelle condizioni di completo azzeramento delle condizioni minime di sicurezza».
A sette mesi dalla inedita sentenza – per la prima condanna di un datore di lavoro in Assise – che provocò burrascose polemiche, il presidente Maria Iannibelli e il giudice estensore delle 464 pagine della motivazione, Paola Dezani, fanno conoscere come e perché, insieme ai sei giurati popolari, sono pervenuti a quella condanna. Citano documenti aziendali, mail del top manager, testimonianze che rendono Espenhahn «consapevole» del rischio di gravi incendi alla TK torinese «in via di dismissione». Un «rischio che ha accettato», per «quanto non abbiamo dubbi che sperasse non capitasse nulla di male ai lavoratori». Siamo abituati a pensare all’omicidio volontario come ad un fatto di sangue: chi spara e accoltella, chi rimane ucciso.
Questa è stata una strage sul lavoro, orribile per come si è consumata: «Antonio Schiavone urlava e chiedeva aiuto però non vedevamo dove fosse, non si vedeva nulla», testimonianza di un compagno di lavoro sulle conseguenze dell’onda anomala di fuoco, il flash fire, provocato dalla rottura di un flessibile contenente olio idraulico alla pressione di 140 bar («corrispondente a quella che si può misurare sott’acqua a 1400 metri di profondità») e che ha sprigionato «spray nebulizzato estesosi di 12 metri». Non c’erano estintori, per quanto pochi e semivuoti, che potessero contenerlo. Con quelli, gli otto operai hanno generosamente cercato di spegnere l’incendio e salvare quel bestione di ferro e acciaio. Sette sono ne sono usciti con ustioni di primo grado nel 90% del corpo.
La TK di Torino era fabbrica a rischio di «incidente rilevante» e tuttavia non aveva il certificato di prevenzione incendio (il giudice tira le orecchie pure ai vigili del fuoco che non furono pressanti). Con l’investimento di un milione di euro – dei 16,7 stanziati dalla capogruppo tedesca per la sicurezza in Italia – sarebbe stato possibile dotare la «linea della morte» di un impianto automatico di spegnimento del fuoco. L’ad lo posticipò alla chiusura e al trasferimento degli impianti a Terni. «Scelta razionale dal punto di vista economico, nell’interesse dell’azienda, ma sciagurata perché associata alla decisione di continuare la produzione in quella realtà di sempre maggior degrado».
Interrotta solo dalla strage di lavoratori. Fra la condanna per omicidio con dolo eventuale e quella per colpa cosciente degli altri 5 dirigenti minori c’è largo margine di confine che la differenza di tre anni di pena non giustificherebbe. Ma, per la Corte, Espenhahn «merita la pena minima per non aver negato in aula lo stretto controllo che manteneva sulla TK di Torino». Fra testimonianze e richiami a foto e video – «ma non può essere una sentenza multimediale» – si ricostruiscono con serenità e precisione gli snodi di un processo difficile. Fra cui i depistaggi e la catena di false testimonianze, «la scarsa incisività dei controlli Asl».
Si accenna anche ai riflessi quotidiani dell’incertezza: «Non è emersa un’attività sistematica di stimolo all’azienda sulla sicurezza da parte dei lavoratori. Erano concentrati sul loro futuro, preoccupati della disoccupazione». E all’ultimo atto Guariniello allarma: «A fine anno il pool di pm che ha sostenuto questo processo e quello Eternit verrà smantellato dalla rotazione decennale degli incarichi che mortifica le competenze acquisite».
La Stampa 16.11.11