Il primo atto economico del governo Monti rischia di partire dalla stessa tassa che inaugurò quello Berlusconi: l’Ici sulla prima casa. Eliminata tre anni fa sull’onda dell’ottimismo della volontà berlusconiano, oggi è in via di riproposizione. Per il professore nonsarebbe neanche una forzatura rispetto al corso politico precedente. Giulio Tremonti infatti ha scritto nero su bianco l’ipotesi di un ripristino nella lettera inviata all’Ue che poneva 39 domande sull’attuazione degli impegni presi. «Un’eventuale reintroduzione dell’Ici porterebbe nelle casse dello Stato 3,5 miliardi di euro», si legge in quel testo. Che smaschera anche l’inganno dell’esecutivo uscente: quell’imposta, stando all’ipotesi Tremontiana, potrebbe tornare con il federalismo fiscale. Poprio quello che fino a ieri gli ormai ex ministri hanno sempre negato. Naturalmente con il nuovo governo l’imposta potrebbe subire declinazioni diverse, improntate a una maggiore progressività per tutelare i più deboli, ma che servano nuove entrate è una certezza matematica. Monti ha bisogno di trovare subito almeno 20 miliardi di euro, quelli che mancano alla manovra di Ferragosto che promette il pareggio di bilancio nel 2013.
Il professore sa che i mercati vogliono certezze, e sa anche che i 200 miliardi di titoli da piazzare da oggi alla primavera dovranno costare alle casse dello Stato molto meno di quanto si sta spendendo in questi giorni. Per questo il risanamento della finanziario (la base per riacquistare la fiducia degli investitori) è il primo dei tre pilastri dell’agenda che il presidente incaricato ha tratteggiato uscendo dalla consultazione con il presidente Giorgio Napolitano. Conti sostenibili, più crescita, più equità. I punti cardinali sono chiari, ma il passaggio è strettissimo, lastricato com’è di veti incrociati della politica, delle forze sociali, delle spinte dei mercati.
E soprattutto dell’incubo recessione, che potrebbe bloccare tutto il sistema. È l’altra incognita che pesa sui conti: oltre il «buco» di 20 miliardi c’è da aggiungere il fatto che la stima di Pil nella manovra è allo 0,6%, mentre il consenso internazionale è pericolosamente vicino allo zero. Significa meno entrate, e quindi più deficit. Per centrare l’obiettivo minimo dei 20 miliardi prende quota anche l’ipotesi di una patrimoniale sui grandi patrimoni, che renderebbe circa 5-6 miliardi. Su questo punto convergono sia i sindacati (Cgil in testa), sia Confindustria, che però punta a un prelievo straordinario. Con la patrimoniale, tuttavia, il nuovo presidente lancerebbe segnali chiari di redistribuzione, di equità sociale, che gli aprirebbero un «corridoio» importante con i sindacati. Magari da sfruttare per avviare quella riforma delle pensioni su cui molti premono in Europa. Sarà difficile elimi- nare semplicemente le pensioni di anzianità, come da qualche parte si sospetta. Non mancano tuttavia soluzioni tecniche per mantenerle, introducendo però un’altra opzione, cioè quella del contributivo pro rata con uscita flessibile. In questo modo i lavoratori avrebbero la libertà di scelta di passare da un sistema all’altro. Sulla patrimoniale, comunque, pende l’incognita dell’ok del Pdl, finora rimasto in trincea. Ma a quel punto far quadrare i conti sembra proprio un miracolo. L’altra arma che resta al professore è quella già scritta in manovra: l’aumento delle aliquote Iva, il taglio delle agevolazioni fiscali (ancora nuove tasse). A meno che non sia in grado in tempi brevi di effettuare una dettagliata analisi della spesa, e calare la lama del coltello sugli sprechi. Impresa annunciata da tutti, tentata da pochi, riuscita a nessuno. Fin qui tutte misure depressive, come lo sono tutte le manovre correttive. Eppure Monti è obbligato a specifiche misure di crescita, non solo perché ci crede, ma anche perché la storiella che i tagli di spesa possono anche essere espansivi, molto popolare nell’«ortodossa» Mitteleuropa, si è rivelata assoutamente falsa in Grecia (pare che autorevoli economisti consulenti della cosiddetta troika abbiano fatto un’esplicita mea culpa nei paper ufficiali). Insomma, Monti non è un rigorista «alla tedesca»: crede nell’utilizzo di diverse leve per rendere i conti sostenibili. Ma è anche convinto (lo ha spiegato chiaramente in un recente intervento in Tv) che la crescita non si faccia distribuendo risorse, bensì con le riforme. Forse le imprese dovranno rinunciare alla pretesa di sgravi Irap, tanto più che non saranno loro a pagare la patrimoniale se sarà disegnata sulle persone fisiche. L’iniezione che si farà nel sistema è quella che in Italia manca almeno da trent’anni: l’apertura delle incrostazioni corporative, delle liberalizzazioni, degli investimenti nella conoscenza e nell’innovazione, e soprattutto sul rispetto delle regole. Lotta alla criminalità e all’evasione: sarà da qui che arriveranno le risorse, col tempo, da destinare al nuovo welfare per i giovani precari.
L’Unità 14.11.11