Il ventennio berlusconiano non lascia in eredità riforme memorabili e neppure autostrade, ma una scia di veleni, scandali e leggi ad personam. Solo lui è diventato più ricco e gli sono persino ricresciuti i capelli. Berlusconi nella storia. Se era questa la sua ambizione è chiaro che può credere d’esserci riuscito. A prima vista, chi potrebbe contraddirlo. A settantacinque anni Berlusconi potrebbe ritirarsi contento e si ritirerà convincendo se stesso d’aver lasciato il segno. Potrà confidare ai suoi fedeli, che non mancheranno finchè non mancheranno le risorse, ’aver salvato l’Italia, dalla finanza assassina, dalle mani rapaci del’eurozona, dalle frane e dalle inondazioni, soprattutto dai comunisti. Racconterà d’aver preso per mano un povero paese e d’averlo condotto sulle soglie della modernità, lui, l’ottimista, il liberale, l’architetto del futuro, l’avanguardista, eccetera eccetera. L’uomo non è privo di immaginazione. Le frottole,
che ha raccontato a noi per venti anni e passa, saprà raccontarle anche a se stesso. Quante altre imprese avrebbe potuto realizzare, il ponte sullo stretto un lampo dalla Calabria alla Sicilia, le centrali nucleari, la giustizia che si sbriga in qualche settimana, altre diaboliche modernizzazioni. Si consolerà: potrà dare la colpa a qualcun altro, alla toga rossa, al traditore Fini, a quella culona della Merkel, all’universo mondo che complotta ai suoi danni, naturalmente ai comunisti, se qualche traguardo è mancato. Però, scorrendo le cronache del suo ventennio, è difficile mettere assieme tre cose memorabili: una grande riforma, una virgola in più o in meno alla Costituzione, neppure un’autostrada. Il bipolarismo non è un’invenzione sua: se mai gli si può attribuire la colpa di averlo ridotto a questo stato di infelicità. Le grandi riforme, norme costituzionali, autostrade, appartengono ad altri ventenni, quando comandavano i democristiani magari in combutta con gli esecrabili comunisti, nel corso della famigerata Prima Repubblica. Di Berlusconi resteranno le escort, i processi, gli assalti all’università e alla scuola tutta dell’inascoltabile signora Gelmini, il porcellum, le picconate del ministro Sacconi ai diritti dei lavoratori, il fantasma del federalismo, la precarietà del lavoro, i condoni, la politica internazionale con l’inchino a Gheddafi e le gite nella dacia di Putin, le barzellette, le canzoni di Apicella e le ville (come quella di Arcore, strappata al costo di un appartamento alla sua legittima proprietaria, che aveva scelto come consulente alla vendita Cesare Previti), i titoli dei giornali di tutto il mondo che lo invitano ad andarsene (questo sì un autentico primato), resteranno forse le televisioni e cioè Mediaset o Fininvest, resterà a lungo, sicuramente, il berlusconismo, cioè
quella malattia che ha devastato questo paese, ha tentato di ridurre, a volte riuscendoci, la morale ad uno straccio consunto, l’onestà a un orpello del passato, la politica agli affari di un clan, la cultura ad un’inutile bagaglio, esaltando il consumismo eletto a valore, eccetera, come molti ancora, per fortuna, avvertono e condannano.
Questa è l’eredità. Per raccontare Berlusconi si dovrebbe raccontare dove si è cacciata questa Italia, sull’onda craxiana e poi nella palude berlusconiana. Si cita Craxi perché da lì cominciarono (a colpi di decreti legge a sostegno delle sue televisioni) le fortune di Berlusconi, che ebbe il leader socialista e la signora Annatestimoni alle nozze, le seconde, con Veronica Lario, e del cui governo in un famoso spot televisivo celebrò la credibilità internazionale, “che è, per chi da imprenditore opera sui mercati, qualcosa di necessario per poter svolgere un’azione positiva in ambienti anche politici sempre molto difficili per noi italiani, e qualche volta addirittura ostili». Cancellato Craxi, si diede a Fini e fu quello il pronunciamento che anticipò la sua “discesa in campo”. S’era a Casalecchio di Reno, nel novembre del 1993, disse che avrebbe votato il segretario del Msi, contro Rutelli alle amministrative romane. Lo disse pensando alla “sua politica”, perché il partito lo aveva già in mente, più per salvare le sue aziende dissestate, indebitate fino al collo (“una candela che si sta spegnendo”, scrisse Giuseppe Turani), che per salvare il Paese. Ne parlò a lungo, a tavola, a Villa San Martino, offrendo ai suoi convitati un vinello dei colli piacentini e le prime candidature. Sedeva con lui Marcello dell’Utri, poi arrivò Dotti, l’avvocato fallimentarista di stile liberale, alla fine messo da parte, per la sua moderazione. Si presentò anche Previti. L’infarinatura politica la fornì il professor Giulio Urbani, i nomi dei possibili candidati si leggevano tra gli agenti di Publitalia. Le selezioni si facevano nel teatrino della Villa (forse lo stesso del bunga bunga)… Nacque Forza Italia, ripetendo il grido di incitamento della nazionale di calcio. L’azzurro perché sembrava unificasse. E naturalmente il suo nome, che le sue televisioni avrebbero rilanciato nell’etere: l’uomo che aveva dato Drive In e qualche Dynasty agli italiani, per giunta senza pagare l’abbonamento. E il Milan ai milanisti. Non vinse al primo botto per quei motivi soltanto, anche se ci confortava pensarlo. Alle spalle ci stavamo lasciando Tangentopoli, le malefatte di altri politici, la sfiducia generale, il qualunquismo che quelle pratiche corrotte avevano alimentato. La frase che si poteva ascoltare più di frequente era: “tutti uguali, tutti ladri”. Non era vero,mala storia si raccontava così. Si è continuato a raccontarla così, la favola dell’uomo nuovo, lontano dalla politica, alla guida del paese. Di nuovo per noi (di vecchio per altri paesi) c’era solo la tv commerciale. Il resto di Berlusconi erano clientele e interessi personali. S’è arricchito solo lui, arricchendo una corte di comparse al suo servizio, i “nani” e le “ballerine” di craxiana memoria, per lo più fedeli e riconoscenti: come sarebbero saliti tanto in alto senza il deferente vassallaggio?
Berlusconi vinse nel 1994, alleato della Lega e del Msi, persino con l’aiuto del povero Raimondo Vianello, di Mike Buongiorno e di Iva Zanicchi.
Fu costretto alla resa pochi mesi dopo l’insediamento, quando Bossi, che allora lo definiva mafioso, ruppe l’alleanza. Lasciò il posto a Dini, il suo ministro del tesoro. Lui avrebbe parlato pochi anni avanti di golpe della magistratura (per l’avviso di reato recapitatogli durante il summit mondiale di Napoli) e del presidente Oscar Luigi Scalfaro. Nel 1996 il successo andò all’Ulivo di Prodi. D’Alema promosse la Bicamerale per avviare grandi riforme istituzionali ma Berlusconi la fece saltare. E nel 2001 lasciò i banchi dell’opposizione. Prodi ci aveva guidati nell’euro,mail centrosinistra al solito litigò, cambiò strade. Berlusconi si inventò la Casa delle libertà, rimise assieme destra e Lega Nord, firmò il contratto con gli italiani sulla scrivania che Bruno Vespa gli aveva messo gentilmente a disposizione. Berlusconi confermò il suo stile e la sua sostanza di venditore-imbonitore (definizioni che risalgono a Montanelli), ma agli italiani piacque e lui vinse. Nominato per la seconda volta alla presidenza del consiglio a metà giugno, esordì a fine luglio sistemando le limonaie in piazza de Ferrari a Genova per il G8 e orchestrando con valenti collaboratori la macchina repressiva di polizia, carabinieri, guardia di finanza, forestale… Perderà tutte le elezioni in mezzo, europee, regionali, amministrative. Appressandosi quelle politiche, coi sondaggi in pesante ribasso, fece il suo capolavoro: cioè la rimonta. Memorabile il suo faccia faccia
con Prodi, sempre officiante Bruna Vespa. All’ultima battuta, all’ultimo secondo promise l’abolizione dell’Ici, la tassa sulla casa. Impossibile la replica. Tempo scaduto. Contati i voti, Berlusconi si fermò appena sotto Prodi, che si ritrovò capo del
governo, afflitto dalla più risicata e litigiosa maggioranza della nostra storia (salvo gli ultimi giorni). Fino alla sconfitta, fino alle nuove elezioni. Berlusconi ci provò con un altro partito, il Popolo della libertà, promosso dal predellino della sua auto in piazza San Babila a Milano. Trionfò, come sappiamo, con numeri a suo favore schiaccianti. Con le conseguenze che vediamo, dal presunto rilancio di Alitalia al tracollo vero dell’Italia, tra processi da evitare ed escort da incontrare, tra ricattatori da pagare e parlamentari da “convincere”. Neppure alla fine ci ha risparmiato i suoi memorabili detti: i ristoranti sempre pieni, gli aerei pure… Lui sì, è diventato sempre più ricco, gli sono persino ricresciuti i capelli, e diventando pure più vecchio potrebbe alla fine infischiarsene dei suoi processi. Gli mancherà
la presidenza della Repubblica. Ci teneva molto. Tiriamo un sospiro di sollievo. Ma i danni sono enormi. Ha lasciato fare ad un gruppo di inconcludenti ultrà del liberismo arraffa- chi-può, guidati dal portafoglio, dalle ambizioni rinate, da un certo spirito vendicativo. Ha scassato lo Stato, senza un disegno, senza costruire niente per il futuro.
L’Unità 13.11.11