L’operazione Monti è forte. Non solo può offrirci l’uscita d’emergenza dall’incendio finanziario, il paracadute nella caduta economica. Può fare di più. Può avviare lo scardinamento dell’Italia delle corporazioni, spezzare la spirale settaria, mettere ai margini chi vive della rendita avvelenata della contrapposizione ideologica, bonificare il terreno dove si svolgerà comunque presto un confronto elettorale che deve essere diverso da quelli inconcludenti del passato.
Per questo l’operazione Monti ha tanti nemici, che di fretta e con furia si mobilitano, si organizzano, cercano di fermare il virtuoso processo politico e istituzionale messo in moto dal presidente Napolitano.
Sono nemici trasversali, perché trasversale è stata in questi anni la convenienza a porre veti, a coltivare orti conclusi, a sparare dalle nicchie della conservazione contro chiunque e qualsiasi cosa cercasse di muoversi e cambiare.
Non c’è solo l’oltranzismo berlusconiano che si raduna domani a Milano, non lontano dal teatro Lirico dove Mussolini tenne il suo ultimo discorso: fu un successo, tanta gente, l’ultima raffica di propaganda prima della fine.
L’interesse di Ferrara, di Feltri e di Sallusti è dichiaratamente interesse di famiglia e di casta, sono spinti dall’horror vacui di chi vede materializzarsi anche prima del previsto la chiusura di un’epoca. Non sanno se dopo il Berlusconi che dà il via libera a Monti arriverà il Berlusconi che ritira armi, bagagli e denari dall’agone politico: questo è l’incubo, ben più che il prevalere di chissà quali tecnocrazie.
La cosa grave, avendo preso in passato sul serio alcuni di loro, è che l’insurrezione miri oggi a fermare l’unica soluzione politica che aprirebbe spiragli di autentica rivoluzione liberale in Italia: tutti da conquistare, verificare, difendere, ma evidentemente legati in questa fase alla personalità e al successo dell’ex commissario europeo che fece piangere il monopolio di Bill Gates.
Quanta impostura, allora, in diciassette anni di sproloqui liberali contro l’establishment: era solo un altro potere costituito che si difendeva, punto.
Questo tipo di destra va sconfitta. Può far danni, trascinerà dalla propria parte fette del Pdl, in queste ore vuole e può far saltare il tentativo di Napolitano.
Poi c’è la Lega, più prevedibile e trasparente nelle sue motivazioni e nei suoi calcoli, che peraltro colpiscono in prospettiva molto più gli ex alleati dell’ex governo che non altri: i leghisti intuiscono la possibilità di recuperare consenso perduto e, di più, di cannibalizzare il rintronato Pdl. Rivederli all’opposizione non deve spaventare nessuno: possono ricrescere un po’, ma saranno tornati ai margini da dove provengono, e senza un giovane Bossi a guidarli.
Lo sbarramento che si alza da sinistra – sinistra si fa per dire – è figlio diretto dei mali antichi e recenti: il massimalismo ideologico, il conservatorismo burocratico, il giustizialismo amorale. Esaltati da un calcolo elettoralistico che, messo a confronto con la situazione drammatica del paese, svela con buon anticipo quali serpi il Pd si stesse allevando affianco, e quanti pericoli ci fossero (anzi, ci sono tuttora) nell’andare rapidamente al voto facendo unico affidamento sul vantaggio risicato e virtuale di un centrosinistra attraversato dagli equivoci.
Mentre lo scontro contro le retroguardie berlusconiane viene facile e immediato, questo è il fronte che maggiormente deve impegnare il Pd. Per la propria stessa salvezza e prospettiva, oltre che per puntellare doverosamente lo sforzo del Quirinale.
Qui è Rodi, Bersani, qui si salta.
Qui arriva la battaglia difficile che finora non c’è mai stato bisogno di impegnare, dietro lo schermo della comune ovvia avversione a Berlusconi. Qui bisogna dimostrare che l’idea di un’Italia aperta e liberale non era solo un condimento in un menù onnicomprensivo. Che si sanno tirare fuori, con le unghie, con la rabbia, con l’orgoglio, le ragioni dell’innovazione annunciata, elaborata e anche praticata in tanti anni non di accademia, ma di governo riformista.
Si metteranno a repentaglio alleanze che sembravano già apparecchiate, l’improvvisata foto di Vasto, il vago nuovo Ulivo? E chi lo sta facendo per primo, non forse quel Di Pietro peraltro lesto a tradire l’impegno assunto con un milione e duecentomila italiani per l’abrogazione del Porcellum? Si anticipa a oggi una resa dei conti che si sarebbe consumata comunque, prima o poi, magari quando ci si fosse trovati nelle strette e nelle responsabilità dello stare al governo, dunque troppo tardi, con troppi rischi e sotto troppi ricatti. Meglio, diecimila volte meglio così. E meglio adesso, quando il veto dipietrista mette in luce l’altra ambiguità sua e della setta giustizialista: loro davvero, non noi, hanno bisogno che Berlusconi non si tiri indietro, che rimanga sulla scena. Il fronte della sedizione trasversale anti-Napolitano si nasconde dietro l’invocazione del voto popolare (col Porcellum!) ma mette insieme tutti quelli che sul berlusconismo hanno lucrato posizioni politiche e altro.
Contro questa armata Brancaleone si può contare sul fatto che gli italiani in queste ore stanno compensando la paura del default con una attesa positiva nei confronti della svolta che Napolitano (di cui si fidano come di nessun altro) può proporre loro. Il Pd deve finalmente rivolgersi a quell’Italia non solo di sinistra che torna a sperare in un confronto politico civile: c’è perfino un’opportunità elettorale, nel momento in cui il centrodestra sbanda, si divide, si estremizza sotto gli occhi disorientati di tanti suoi elettori di buon senso.
Certo poi non sarà una passeggiata, semmai comincerà, il cammino a sostegno di un governo Monti, e a seguire lo sviluppo di questa esperienza in una proposta politica ed elettorale da presentare presto al paese. Sarà un percorso di guerra disseminato di agguati, cecchini, ostacoli difficili da superare, scelte complicate da far digerire alle proprie constituencies, battaglie per imporre dentro un quadro di risanamento la propria visione dell’equità e della giustizia sociale.
Ci vorranno convinzione, saldezza di posizioni, solidarietà interna e, sissignore, anche quella capacità comunicativa della quale si ha tanto snobistico timore, in assenza della quale il popolo democratico rischia di non capire, di venire ingannato da messaggi avvelenati, di sentirsi respinto dalle risse da talk-show che – si è visto da subito, dalla prima sera – saranno un’arma del partito unico sfascista: guai a cadere nelle provocazioni, cerchiamo di essere un minimo professionali e avvertiti.
Sarà dura, allora. Ma lo sapevamo che non sarebbe stata facile, no? Se fosse stata facile, poteva provarci gente meno brava e determinata di noi.
da Europa Quotidiano 12.11.11