Dimissioni del governo, ma solo dopo il voto sulla legge di stabilità. E’ l’ultimo escamotage del Cavaliere, la mossa disperata di chi messo spalle al muro pensa di rompere il muro a testate. Per noi, invece, è l’avvio di un ciclo nuovo. Il che solleva il nodo di fondo: come le opposizioni si preparano al dopo. Non solo a un possibile governo di transizione o a una campagna elettorale ravvicinata, ma a quella ricostruzione del paese di cui ha parlato Bersani a San Giovanni. E allora non bisogna perdere tempo. Dobbiamo tirare un filo alternativo. Perché, nel breve, potremmo anche dover votare provvedimenti duri e severi, ma tanto più peseranno moltissimo le scelte e gli indirizzi futuri. Insomma l’idea dell’Italia che ci impegniamo a costruire dopo la destra.
Sapendo – e questa è la premessa – che l’epicentro della crisi che ha sconvolto il mondo e rischia di travolgerci è nello sviluppo sregolato della finanza in economia, ma soprattutto in una crescita immorale delle diseguaglianze. Di fronte a questa doppia verità la politica e i media si affidano agli economisti per individuare la via d’uscita più rapida dal pozzo nel quale siamo precipitati. La scelta all’apparenza sembra logica, se hai una peritonite cerchi un chirurgo. Ma le cose non stanno così. Anzi, tra gli errori compiuti sinora spicca anche l’aver affidato agli esperti di economia soluzioni che essi, per quanto competenti, non sono in grado di assumere. La realtà è che se vuole riacquistare legittimità e il senso della sua vocazione la politica, mai come adesso, deve interrogare universi e dimensioni che ha troppo trascurato, dalla filosofia all’etica, dalla psicologia alle nuove domande di senso religiose e civili. Credo lo debba fare per una ragione di fondo che provo a riassumere.
La rottura intervenuta coi crolli bancari del 2008 e la reazione rabbiosa che da lì si è generata – dalla primavera araba agli indignados passando per gli attendati di Occupy Wall Street – va intesa nella sua giusta dimensione che è quella di una frattura di civiltà. Uno di quei mutamenti d’epoca che spinge a rinnovare le forme della convivenza e della crescita comune. Dunque qualcosa che scavalca le più classiche risposte dei governi, sia nella versione della destra (mercatismo e dumping sociale), che della sinistra (spesa pubblica e tassazione progressiva) che della apparente neutralità della tecnocrazia (rigore dei conti e principio di austerity). Ciascuna di queste ricette conta su un bagaglio di teorie, ma nessuna si è mostrata in grado finora di aggredire al cuore la novità.
Prendiamo uno dei capitoli fondamentali nella crisi. “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” recita il primo articolo della Costituzione. Ora, lasciamo un istante da parte le cifre sulla disoccupazione. Pensiamo, invece, a cosa ha prodotto un ventennio di flessibilità e bassi salari come requisito stabile di accesso alla vita adulta per qualche milione di persone. Per capirci, ragazze e ragazzi di vent’anni e che oggi ne hanno quaranta. Ciò che hanno conosciuto in prima persona è stata una perdita verticale e assolutamente inedita del valore sociale del lavoro.
E’ chiaro, infatti, che se un lavoro ce l’hai, stabile o relativamente stabile, puoi fondare su quello l’assetto della tua esistenza (una laurea, un progetto di vita, un figlio) e un tratto della tua personalità. In quel caso il lavoro – il valore del lavoro – intreccia l’autonomia della persona, la condiziona e la relaziona con gli altri. Se però quel lavoro, stabile o relativamente stabile, scompare sostituito da un reddito incerto e intermittente, quale sarà il bene primario a cui la persona si rivolgerà? Molto semplicemente, il denaro. Nella scomparsa del lavoro come tratto dell’identità e nella sua riduzione a merce “flessibile” sempre meno retribuita e via via svuotata di diritti, si determina di fatto il primato del denaro inteso come la garanzia ultima della propria libertà e di una possibile legittimazione sociale.
Su questo rovesciamento della gerarchia dove lo strumento (il denaro) ha soppiantato il valore (il lavoro) la destra ha fondato un impianto di politiche pubbliche e culturali. Non è stata solo una soluzione tecnica. E’ stata una rivoluzione antropologica, qualcosa che ha aggredito il “senso” di marcia della comunità. Naturalmente è sacrosanto reagire al problema con una mappa aggiornata degli ammortizzatori. Ma se la politica e la sinistra non si pongono il tema di fondo – come reinvestire il lavoro della sua valenza sociale e sottrarre alla destra l’egemonia accumulata – non potranno estirpare la mala pianta e si accontenteranno di scuotere l’albero dai frutti più bacati. Il che non è poco, ma neppure basterà.
Non è diversa la questione della diseguaglianza, a meno che non la si intenda come un mero scompenso tecnico, una variante laterale nel grande disegno della nuova economia-mondo e della sua cometa finanziaria. Ma anche in questo caso non è così. Quella diseguaglianza è stato il fondamento ideologico di una ristrutturazione profonda dell’ordine sociale. Ha condizionato le strategie di nazioni, governi e parlamenti. Ha spezzato reti di solidarietà e formato aggregati marginali (parliamo di popolazioni intere) destinati a pagare il prezzo massiccio della più radicale opera di ristrutturazione dell’economia e dei profitti dalla presa della Bastiglia. La paura degli altri, la lotta dei poveri contro i più poveri, la sfiducia verso le prospettive di riscatto collettivo, molla scatenante nei moti popolari dell’ultimo secolo, hanno cementato il patto di sangue tra la destra politica e il gotha di Wall Street. Non è solo che hanno guidato il mondo per un pezzo. E’ che lo hanno rimodellato seguendo la trama dei loro pensieri e utili. Hanno requisito i giacimenti naturali, in senso letterale (acque, sementi e terre), mortificato i beni comuni e impoverito il novantanove per cento della società perché, al fondo, era giusto comandasse l’un per cento più ricco e sfrontato. Fino a convincere milioni di persone a pensarla in modo diverso persino su di sé e sui propri bisogni.
Un bel pasticcio capace di incrinare sino a dissolverla la vecchia alleanza tra il capitalismo, lo Stato e la democrazia che aveva piantato storicamente le sue radici in Europa e negli Stati Uniti. Ecco perché la crisi ha questa portata. Perché è crisi del compromesso su cui l’Occidente ha retto la sua lunga egemonia, culturale prima che politica. Ed è di questo che la politica prima o dopo dovrà rispondere. Mi fermo, anche se il discorso parte proprio da qui. Dico solo che sono queste ragioni a sconsigliare di mettere i destini del mondo – o più modestamente dell’Italia – nelle mani esclusive dei tecnici. Questa crisi ha già cambiato storia, politica e geografia, ma è destinata a incidere sul pensiero, sul significato delle esistenze oltre che sulle sorti dei singoli. Molti stanno ragionando su questo. Dall’enciclica sociale di Benedetto XVI alla ricerca critica, e autocritica, del progressismo americano ancora leale verso il suo Presidente ma non reticente verso i suoi limiti e i compromessi che ha dovuto accettare. Per finire con le voci coraggiose di una sinistra che anche alle nostre latitudini ha denunciato la gravità del modello imposto dagli altri. Forse anche noi, a partire dal progetto di Ricostruzione dell’Italia, dovremmo farci carico del problema. Perché il punto non sta nella esegesi della lettera della BCE. Ma in tutto ciò che la politica non ha fatto prima. E allora certo che è tempo di riforme. Ma non esistono riforme neutre. Esistono riforme giuste e coerenti col mondo che si immagina. E dunque esistono solo riforme che assumono un punto di vista del tempo e della storia, come sta facendo il centrosinistra alle prese con la nuova sfida per un governo diverso dell’Europa. Chi dice che non è così e dopo la grandine pensa solo a qualche aggiustamento mente sapendo di mentire. A noi tocca il compito di dire la verità.
L’Unità 10.11.11