Non c’è solo rabbia, fango e indignazione in questi giorni a Genova. C’è anche la ritrovata normalità di darsi una mano. E sono giovani, studenti, ragazzini, volontari venuti da vicino e da lontano che spalano via la melma dell’alluvione, un esercito reclutato con il tam tam su Facebook e il passaparola che si accontenta della semplice gratitudine di chi ha perso tutto. È così anche a Monterosso, Vernazza, Borghetto Vara, paesi devastati dai torrenti impazziti. Con le pale, i guanti, i cestoni questi ragazzi offrono aiuto ai residenti e alla Protezione civile, cercano di essere utili. «Serve un aiuto?», chiedono per esempio Chiara e Lucia, liceali in trincea, al Municipio di Genova. In via Fereggiano c’è da sgomberare una cantina, liberare un ingresso, ripulire un box. «Organizziamoci, diamoci da fare», rispondono tutti.
Viviamo in un Paese fragile e disastrato che ha bisogno di buone pratiche per dimostrare di essere migliore di quello che appare, migliore dei politici e dei ministri che non si sono azzardati a sporcarsi le scarpe nel pantano della Liguria, migliore di un sindaco imbarazzante e inadeguato all’emergenza che ha scaricato sui cittadini il mancato coprifuoco. Oggi è lontana da qui l’Italia del Palazzo impegnata a sopravvivere a se stessa, ma è qui che si può imparare qualcosa e ce lo dicono proprio i giovani: «Vogliamo aiutare la risollevare la nostra città». C’è il senso di responsabilità (che troppo spesso manca negli adulti con un ruolo pubblico) c’è l’umiltà (che dovrebbe essere un distintivo nobile della politica e invece viene scambiata per incapacità di apparire o di farsi notare).
Abbiamo bisogno di esempi imitabili in ogni campo e settore perché la crisi mette in discussione tutto e il concetto di servizio agli altri (e per gli altri) è come un testimone da passare di mano in mano. Si dice che la grande sfida di questo secolo è assicurare a ogni essere umano una vita decente, salvaguardando il più possibile ciò che resta del mondo vivente. I giovani l’hanno capito, e ce lo stanno dicendo con i fatti. Bisogna riconquistare credibilità e fiducia in un Paese che ne ha persa troppa. Bisogna reagire al disfattismo con un progetto, una proposta, un atto concreto. I volontari che si rimboccano le maniche nelle strade di Genova e delle Cinque Terre restituiscono un po’ di dignità a un Paese da salvare al più presto «non solo da una cricca inetta o da una crisi economica», come ha scritto ieri Claudio Magris, «ma con altrettanta urgenza da piogge e maree, la cui assopita potenza distruttiva ogni tanto esplode».
È il tempo delle risposte questo, ci dicono i ragazzi sorridenti nel fango di Genova: bisogna darsi da fare per uscire dall’emergenza, prepararsi ad affrontare le tempeste prossime venture, recuperare un po’ d’orgoglio e, per restare al tema dell’alluvione, rimettere in moto la macchina della prevenzione e della manutenzione, scassata dal disinteresse dei politici (perché non paga elettoralmente) e svuotata di fondi e di attenzione dai governi (tutti, nessuno escluso). È paradossale dover ricordare in questa situazione che siamo il Paese che ha inventato i ponti e gli acquedotti e ha un patrimonio enorme di competenze e conoscenze in materia idrogeologica: perché lasciamo dettar legge all’interesse privato, alla stupidità e alla convenienza? Perché non si concentrano risorse e attenzioni su quelle piccole opere che evitano i disastri o ne limitano, almeno in parte, i danni? E perché non si fa della tutela ambientale una materia scolastica, una pratica da apprendere e studiare, per far crescere la cultura del rispetto davanti alle emergenze?
Rimbombano le parole di Luigi Einaudi, che i più giovani forse non conoscono. Dopo aver visitato l’inondato Polesine, il presidente degli italiani invocava impegno e pazienza per il risanamento e la tutela del territorio e si rivolgeva al presidente del consiglio Alcide De Gasperi con questa lettera: «La lotta contro la distruzione del suolo sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito d’oggi, se si vuole salvare il territorio in cui vivono gli italiani…». Era il 1951: abbiamo perso la memoria.
Non diremo mai abbastanza grazie a chi si impegna per il bene del proprio Paese e ci mette fatica, tempo e faccia, ai giovani che liberi dall’impegno scolastico non hanno esitato a sporcarsi le mani. Solo quando ci si scontra con la realtà del disagio, della sofferenza, dell’emergenza o del dolore si capisce il valore straordinario del volontariato: quasi sei milioni di persone in Italia che garantiscono il funzionamento di tanti beni comuni, dall’ambiente alla cultura, alla sanità. Purtroppo non contano, non hanno voce, non hanno padrini politici anche se educano a quella cittadinanza che dovrebbe essere il caposaldo di ogni buona politica.
Non dimenticheranno questa esperienza i ragazzi di Genova e noi non dimenticheremo il loro impegno, come è accaduto per altre generazioni e per altre alluvioni. Sentirsi utili è importante. Non c’è discorso sulla cittadinanza che, per quanto corretto, possa eguagliare il contagio positivo di un ragazzo in azione. Guardateli bene i volti delle persone che stanno spalando l’acqua marcia dalle case e dai negozi: sono volti sui quali si può leggere il concetto di pubblica utilità. Non è retorica: sono i veri alleati della ricostruzione di questo Paese.
Il Corriere della Sera 08.11.11