E’come il gioco delle tre carte. Quella vincente c’è, ma non esce mai. Perché la mano che guida il gioco ha interesse a nasconderla, e incassare così i soldi dell’avventore. Con i finanziamenti per l’ambiente e il territorio è la stessa manfrina. I soldi aleggiano, come la carta vincente. Poi spariscono, non li vede nessuno: non gli enti locali interessati, non i cittadini in forma di opere realizzate per la loro sicurezza. Quei soldi restano al banco, e si scoprono solo le due carte perdenti. Due colpi da baro che assicurano il medesimo effetto: i soldi vengono promessi, annunciati, ma non vengono mai spesi. E restano così al governo, che può impiegarli (o solo prometterli) altrove. Altre volte i soldi ci sono, ma è una finzione: le opere sono progettate e decretate. Ma non vengono mai “cantierizzate”. Per molti motivi: per mancanza di forza politica, per impedimenti tecnici, per eccesso di burocrazia. Ma il perché non è discriminante, come ha confermato la Corte costituzionale appena 3 mesi fa, giudicando un ricorso della Regione Liguria proprio contro questa norma finanziaria, che consente di avocare allo Stato una somma già stanziata anche se «il mancato impegno non è dipeso da alcuna inerzia o colpa della Regione». I soldi tornano indietro, come fossero legati a un elastico. Così il governo può spendere gli stessi soldi molte volte. Annunciare interventi per placare l’onda emotiva, rientrarne in possesso e perfino spenderli in quella “legge mancia”, introdotta dal governo Berlusconi nel 2004, soppressa da Prodi nel 2007 e riapparsa sotto mentite spoglie con il ritorno del centrodestra al governo. Sfacciatamente il capitolo di spesa viene intestato a «Interventi realizzati dagli enti destinatari per il risanamento
e il recupero dell’ambiente… dei territori stessi». Ma sono un’altra carta truccata, che tiene in vita il sistema con il quale i gruppi parlamentari distribuiscono soldi a pioggia ai collegi elettorali. È un finanziamento clientelare che negli ultimi anni è stato superiore ai soldi destinati alla vera messa in sicurezza del territorio. Quasi 200 milioni negli ultimi tre anni. Per il restauro delle parrocchie (anche l’erba sintetica per i campetti degli oratori), per l’attività sportiva dell’associazione Valsugana rugby, per opere di cementificazione (il contrario della tutela del territorio…), per la Croce rossa, per finanziarie associazioni da nomi
inutilmenti lunghi. Ci sono anche comuni che raccolgono sfide virtuose (sul ciclo dei rifiuti differenziati), ma il “grosso” va per opere che tutto sono fuorché investimenti per l’ambiente. Anche in questo 2011 di vacche magrissime la mancetta è arrivata: 2 milioni e 600 mila euro per 63 progetti. Le carte perdenti sono due, e restano in mano a chi vive in questi 5 mila e passa comuni che lo stesso ministero classifica “a rischio di frane e alluvioni”.
La prima carta sono i soldi promessi e tagliati. Nel 2007 il governo Prodi mise nel capitolo di spesa del ministero dell’Ambiente 1 miliardo e 649 milioni, 269 dei quali destinati
specificatamente alla difesa del suolo, che giovava di un dipartimento parti-colare. Stefania Prestigiacomo ha ridisegnato i settori, accorpando e di fatto cancellando il dipartimento specifico per la tutela del territorio. Di quel pacchetto di soldi si sono subito perse le tracce. Sicuramente non è mai stato “speso”. E da allora quel ministero ha pagato il dazio più alto alla crisi finanziaria dello Stato. Lì Tremonti ha razziato i soldi che servivano per finanziarie le manovre. Il primo anno sono stati tolti 500 milioni. Nel triennio 2011-14 il fondo viene immeserito un pezzo per volta: 124 milioni in meno il primo anno, 45 il secondo, 59 il terzo. Totale: 228 milioni. Alla Prestigiacomo resterebbero solo circa 400 milioni, «e il 90% servirebbero per pagare le spese fisse come stipendi, affitti delle infrastrutture, bollette e per garantire la gestione ordinaria». Quel che resta servirà per suturare la “carne viva”, dopo le ultime tragedie. Questa è la seconda carta perdente di questo gioco truccato. Perché in fondo la storia dimostra come il lupo torni spesso dove ha fatto la tana. Le disgrazie sono “prevedibili”, battono sempre le solite strade, si ripetono nei soliti posti, devastati dal cemento e dall’incuria. Se la storia non aiuta chi
non la vuole studiare, c’è sempre la Protezione civile, che negli ultimi 15 anni ha scritto245 ordinanze su altrettante zone a rischio idrogeologico. E c’è quel dimenticato istituto, l’Ispra,
che ha steso mappe su mappe, identificando con precisione le colline e i torrenti più pericolosi. Spesso riparare una ferita può servire – se l’opera è duratura – a confondere le tracce del lupo. Ma gli accordi che il ministero ha firmato in questi anni con le varie regioni sono stati depotenziati dal patto
di stabilità, che blocca le spese a livello locale, paralizzando l’iter proprio nella parte fra il progetto e la realizzazione. «I rischi sono tutti documentati. In più ci sono decreti – a tutti livelli – che prevedono l’impiego dei soldi per opere precise e necessarie. Ma qui si fermano»: Oriella Savoldi e Domenico
Di Martino, del dipartimento ambiente e territorio della Cgil, si sono messi a spulciare carte, leggi, decreti, progetti. Stanno compilando una casistica ampia di opere arrivare sul punto di essere eseguite. Per restare alla terra più colpita, la Liguria, fa effetto notare come a Genova ci siano opere previste per circa due milioni di euro e ferme dal 2004. E che ci fossero pronti 600 mila euro per «interventi strutturali di difesa dell’ambiente» a Monterosso sul Mare, «operazioni sul pendio, muri e scogliere per arginare le nondazioni, …una rete metallica a doppia torsione, pannelli e rinforzi con funi d’acciaio… placcaggi, tiranti, ancoraggi». Servivano per limitare il mare, quando si gonfia, e per ripararsi dagli smottamenti. Servivano, insomma, per evitare che un delizioso paese sparisse, com’è accaduto il 25 ottobre scorso.A Vernazza altri 350 mila euro erano lì, ma sono tornati a Roma così, come fossero legati a un elastico.
L’Unità 09.11.11