Il 4 ottobre 2010, il Ponente di Genova fu colpito da una grave alluvione. Da allora, cosa è successo? «Tredici mesi di testate contro il muro», denuncia il presidente della Regione, Claudio Burlando, commissario. «Se tutto va bene, sta per concludersi il lungo iter per lo stanziamento dei primi 45 milioni di euro previsti per i danni dell’anno scorso» (ben 300 milioni). Il Wwf denuncia un bluff clamoroso: sparito lo stanziamento nazionale di 800 milioni (500 per la prevenzione del dissesto idrogeologico) promesso da Berlusconi e da Tremonti, con l’asta delle frequenze e con una quota dei Fas. V’è di più: torna la minaccia di un condono degli abusi edilizi, il terzo promosso da Berlusconi. Che ha la faccia di bronzo di commentare la sciagura di Genova con un lapidario: «Si è costruito dove non si doveva». Dopo le tragiche inondazioni del 1966, i governi, per lo più di centrosinistra, hanno impiegato ventitre anni per approvare una legge, peraltro buona, per la
difesa del suolo, la n. 183 del 1989, sul modello della Themes Authority londinese. Pochi anni, in compenso, ha impiegato il centrodestra – con l’aiuto di Regioni e Comuni, anche di centrosinistra, s’intende – per smontarla, definanziarla, delegittimarla. A partire proprio dal 2001, quando le Autorità di Bacino avevano adottato i piani di riassetto. Del resto, l’alleato fedele del Berlusconi III, la Lega Nord, il Po lo vorrebbe gestito «a spezzatino», un pezzo ciascuno Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto. E così pure l’Adige. Esiste politica più ridicola e insieme più criminale di questa? A Genova l’allerta c’era stata, tempestiva. Non si è detto alla gente: restate a casa. Si è peccato di ottimismo in una città che ha subìto, dopo quella paurosa del 1970 (mi ci trovai in mezzo) costata 44 vittime, tanti disastri, l’ultimo un anno fa. Fa bene il sindaco di Torino, Piero Fassino, a usare la massima prudenza. Il Po spaventa. Le alluvioni cominciano in montagna. Genova è comune di mare e di montagna, col Monte Reixa di ben 1.183 metri. Dall’alto precipitano a valle, oltre ai torrenti principali, ben 44 rii, molti dei quali arrivano in città «tombati» nel cemento e, per la pressione di una massa d’acqua sempre più ingente e veloce (grazie alla tante nuove strade asfaltate e ripide), scoppiano. In più, gli agricoltori sono spariti dalle alture e nessuno più ripulisce gli alvei da arbusti, ramaglie, tronchi di alberi caduti. Discorso che vale per gran parte della montagna italiana. Dove gli agricoltori superstiti vanno incentivati a rimanere con politiche mirate. Ma quando ci si convincerà che l’agricoltura, in specie quella di montagna, ha una precisa e preziosa funzione di salvaguardia dell’ambiente e dell’assetto idrogeologico essenziale per le grandi pianure?
Come ha ben spiegato ieri sull’Unità l’urbanista Vezio De Lucia, bisogna darsi un diverso modello di sviluppo con piani scientificamente fondati: stop al consumo di suoli liberi, al cemento+asfalto, manutenzioni incessanti di boschi, alvei, sponde, affidate all’«esercito del lavoro» giovanile, immaginato dal grande meridionalista Manlio Rossi Doria e ripreso dall’economista Paolo Sylos Labini. Non per stipendiare, beninteso, degli inoccupati, ma per «rinaturalizzare» fiumi e torrenti, a monte e a valle con piani seri puntualmente eseguiti. Siamo un Paese geologicamente giovane, sismico, con tante frane (e cave, molte abusive). Nel 105 d.C. Traiano nominò Plinio il Giovane «curator alvei Tiberis et riparum et cloacarum Urbis», cioè soprintendente generale
dell’Autorità di bacino del Tevere. Chi promuoverà quest’opera quotidiana e grandiosa, salverà l’Italia da immensi guasti e lutti e «passerà alla storia». Altro che
Ponte sullo Stretto.
L’Unità 07.11.11
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Intervista a Vezio De Lucia: «Un piano di lavoro contro crisi e disastri» di Jolanda Bufalini
Parole, parole, parole. Vezio De Lucia ha alle spalle lunghe battaglie e conquiste concrete realizzate come funzionario, come assessore, come urbanista, nella difesa del suolo. Si richiama ad una lunga storia nel paese senza memoria. Una storia che inizia all’indomani del 5 novembre 1966, l’alluvione di Firenze e Venezia “città d’arte, cit tà simbolo”.
Fu uno choc mondiale, i giornali hanno pubblicato anche in questi giorni le foto degli angeli dell’alluvione. Non ne abbiamo tratto nessuna lezione?
«Invece sì, Giacomo Mancini, che io considero essere stato un ottimo ministro, istituì la “commissione De Marchi”, Giulio De Marchi era un ingegnere idraulico molto competente. Si studiarono molto approfonditamente i problemi che, in larga misura, sono gli stessi, dalla utilizzazione impropria delle aree golenali, alla cementificazione degli alvei, all’esodo dalle zone agricole collinari. Ci sono voluti più di venti anni per dare una sistemazione legislativa seria alla difesa del suolo. La legge del 1989 prevede i piani di bacino che però non sono stati mai fatti».
A Genova si è verificato un evento eccezionale.
«È vero ma la sempre maggiore frequenza con cui si verificano eventi climatici estremi fa perdere quel carattere di eccezionalità per assumere quello della ordinarietà. Il mondo scientifico ci ha messo in allarme da tempo e per questo non ce la pos- siamo prendere con la natura, perché sappiamo che si tratta di scenari con cui ci dovremo misurare sempre più frequentemente».
Lei, quindi, vorrebbe recuperare il modello della commissione De Marchi e aggiornarlo?
«Una commissione che elabori, rapidamente, con il contributo dei migliori scienziati, le misure per fronteggiare la situazione nuova. Ma, lo dico senza alcuna retorica, il problema che si pone è quello di un diverso modello di sviluppo. L’urbanista Pietro Laureano spiega che l’uso del- le risorse naturali riproducibili è su- periore a quello che la natura stessa riesce a produrre, siamo sempre in debito con la natura. Mettere in discussione il modello di sviluppo si- gnifica collegare la crisi ambientale e la crisi economica. Ci vuole una moratoria nel consumo del territo- rio. Uno stop. In Liguria c’è stato un dissennato consumo del territorio. Ma…”
“Ma?”
«Bisogna chiedersi se sia giusto proseguire sulla via della sussidiarietà e del federalismo, spostare i centri di decisione verso il basso, secondo un federalismo verticale, secondo il sistema delle autonomie. Io penso che si dovrebbe po- tenziare la responsabilità naziona- le rispetto alla gravità di questi fenomeni. Ci vogliono scelte politiche nazionali, anche perché oggi c’è la difesa del suolo, in tutta la sua gravità, ma sappiamo che domani potremmo trovarci di fronte a un altro terremoto».
Milioni e milioni. Ad ogni cataclisma si fa appello alla necessità di investimenti milionari. Ma i soldi non ci sono e tutto resta come prima.
«La messa in sicurezza del paese ha potenzialità di densità occupazionale molto forti. Si tratta di operazioni anche minute, ci vorrebbe un piano del lavoro, come ai tempi di Di Vittorio, solo che oggi dovrebbe essere rivolto a ceti preparati per il recupero agricolo, per i centri storici, per l’assetto idrogeologico. Quanti partiti hanno considerato questo problema di difesa del territorio, che è anche un problema di difesa della vita umana, una priorità nazionale assoluta? ».
Servono un sacco di soldi
«Le spese si pianificano, non è una questione che si risolve dall’oggi al domani, è un tema che riguarda in tere generazioni future. C’è la priorità politica che, lo dico anche per il mestiere che faccio, dovrebbe essere allargata al paesaggio, abbiamo un Codice per la difesa del paesaggio. Ma i piani paesistici non si fanno. Sicurezza, integrità fisica, difesa del suolo e delle acque: si devono intrecciare crisi economica e crisi ambientale in un grande tema nazionale».
Berlusconi ha detto che si è costruito dove non si doveva. Si è levato un coro per dire che lo hanno permesso i suoi condoni.
«Ne ha fatti di condoni … E, fino a ieri, si è parlato di uno nuovo. Bisogna stare attenti perché il primo condono lo fece Craxi nel 1985, poi ci sono stati quelli di Berlusconi, nel 1994 e nel 2003. Uno ogni nove anni, il 2012 è a rischio».
C’è stato anche il piano Casa. Se avessi una villetta nei pressi di un corso d’acqua potrei allargarmi.
«Il Piano casa è un condono preventivo, soprattutto quello del Lazio è spaventoso. Ora Berlusconi dice che si è costruito dove non si doveva, se quello che è accaduto servisse a impedire nuove sciagu- re, già sarebbe qualcosa. Ma bisogna impegnarsi e dire “mai più condoni”».
L’Unità 07.11.11