I cittadini che – sentendo da giorni suonare le campane a morto per il governo e vedendo allungarsi la fila dei dissidenti che chiedono a Berlusconi di farsi da parte – si aspettavano legittimamente la crisi per domani, in occasione della prima votazione parlamentare alla Camera, resteranno delusi a sapere che anche stavolta la caduta del Cavaliere potrebbe essere rinviata: se ne riparlerà, probabilmente, a metà mese.
La ragione di questo inatteso allungamento dei tempi di un’agonia che diventa giorno dopo giorno più tragica è presto detta: un po’ per senso di responsabilità e un po’ per furbizia, le opposizioni, che sembravano pronte a presentare un’ennesima mozione di sfiducia contro il governo (l’ultima, appena il 14 ottobre, non era stata approvata per soli due voti), avrebbero deciso di schierarsi nel voto di domani con un’astensione. Il senso di responsabilità sta nel fatto che trattandosi di rivotare il rendiconto dello Stato, che non era riuscito a passare un mese fa, troppo forte sarebbe il rischio che una nuova bocciatura si traducesse in un incoraggiamento alla speculazione contro l’Italia, specie in giorni in cui il Paese proprio su questo terreno traballa, ed è sottoposto a una speciale sorveglianza dell’Europa e del Fondo monetario internazionale.
La furbizia invece consiste nell’aprire la strada, proprio con un’astensione che in pratica garantisce al governo l’approvazione del rendiconto, a tutti i possibili ripensamenti e ai franchi tiratori della maggioranza. Una sorta di liberi tutti rivolto ai dissidenti, per contarli, al di là dell’incerto registro che ha visto molti di loro ondeggiare nelle ultime ore, specie a causa del pressing che Berlusconi in persona, appena rientrato a Roma, per un intero weekend ha somministrato loro in dosi massicce e con l’aggiunta di lusinghe, promesse e offerte di quelle che non si possono rifiutare. Piuttosto che ritrovarsi come ad ottobre, con un paio di dissidenti pentiti che all’ultimo momento entrano in aula e votano la fiducia, magari per diventare sottosegretari due ore dopo, le opposizioni sperano, con l’astensione, di portare Berlusconi a ottenere l’approvazione del rendiconto con un numero di voti sufficienti, sì, ma non bastanti a poter dire di contare ancora sulla maggioranza dei fatidici 316 voti, la metà più uno dei deputati della Camera.
La speranza, a quel punto, è che il Cavaliere prenda atto che non può governare un passaggio così difficile come quello che il Paese sta attraversando con l’appoggio di una maggioranza che, non solo è esile, ma non può più nemmeno dirsi tale. E di conseguenza, dimostrando a sua volta il senso di responsabilità che l’opposizione avrebbe manifestato con l’astensione, si rechi finalmente al Quirinale a dimettersi, senza aspettare l’onta di essere battuto in una delle successive votazioni e senza costringere di nuovo l’opposizione a proporre un’altra mozione di sfiducia.
Ora, sarà tutto da vedere se un sottile gioco parlamentare come questo, e il «gentlemen’s agreement» che dovrebbe consentire a Berlusconi un’uscita incruenta, possano essere capiti dai mercati internazionali, che da mesi ormai si interrogano sulla capacità dell’Italia di far fronte alla crisi economica con strumenti adeguati e con una capacità decisionale degna di un momento così grave. Già stamattina i sensibili indicatori a cui il Paese vive appeso da settimane, con gli occhi all’altalena dei tassi di interesse, degli spread e dei cambi, potrebbero dire che non è così. Ma altrettanto forte è il rischio che Berlusconi per primo, come ha fatto in questi giorni, non se ne dia per inteso. E invece di far buon viso a cattivo gioco e incamminarsi per la dolente strada delle dimissioni, incassi l’approvazione del rendiconto e continui a dispetto di tutti – e prima ancora del Paese – nella sua incomprensibile resistenza.