attualità, politica italiana

"Forse stavolta l'Italia s'è desta", di Eugenio Scalfari

Che il tempo di Berlusconi fosse scaduto era chiaro a tutti da un pezzo, ma la cosa singolare è che ormai è finalmente diventato chiaro anche allo stato maggiore del suo partito e, a quanto sembra, anche a lui.
Altrettanto chiaro è che la via delle elezioni anticipate non è praticabile; la sconfitta del Pdl e della Lega sembra inevitabile e catastrofica. Ma c´è anche un´altra e più stringente ragione: l´Italia non si può permettere due mesi di campagna elettorale con i mercati che porterebbero lo “spread” a 600 punti base e il rendimento dei titoli pluriennali all´8 per cento.
Non resta che un governo del Presidente guidato da una personalità al di fuori dei partiti, che abbia grande autorevolezza internazionale e l´appoggio di tutte le forze responsabili rappresentate in Parlamento. Tra queste ci deve essere anche il Pdl affinché la fiducia parlamentare sia solida e non esposta a trabocchetti che avrebbero un effetto devastante sulla crisi economica.
Questi sono i dati ormai certi della situazione. Incerte sono ancora – ma non lo saranno per molto poiché il tempo stringe – le modalità del “passo indietro” berlusconiano: farsi battere in Parlamento o dare le dimissioni prima che la sconfitta sia certificata da un voto?
Gianni Letta, che insieme ad Alfano e a Verdini ha informato il presidente del Consiglio che la sua maggioranza numerica non c´è più, propende per le dimissioni prima d´un voto di sfiducia. L´occasione potrebbe esser quella dell´8 novembre, giorno in cui si voterà alla Camera il Rendiconto economico dello Stato. Questo documento è essenziale perché, in mancanza della sua approvazione, non è possibile approvare la legge di Bilancio e quella di stabilizzazione economica.
Le opposizioni potrebbero astenersi e l´ex maggioranza approvare il Rendiconto, in tal modo apparirebbe chiaro che la maggioranza ha appunto cessato di esistere perché è scesa al di sotto dei numeri che la rendono tale.
A quel punto il presidente del Consiglio si presenterebbe dimissionario al Quirinale e la partita passerebbe nelle mani di Napolitano. Il resto riguarda il capo dello Stato verso il quale si concentra da tempo la fiducia del Paese e di tutti i governi dell´Europa e dell´Occidente.
Questo è uno dei possibili passaggi, ma altri ce ne sono che conducono allo stesso risultato: un nuovo governo presieduto da un “Papa straniero” con l´appoggio di tutti e in particolare dell´Europa, della Bce e del Fondo monetario internazionale. Con quale programma?
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Alcuni dicono che il programma è quello contenuto nella lettera d´intenti che Berlusconi presentò pochi giorni fa alle Autorità europee e che queste avevano corretto e integrato prima ancora di riceverla. Ma quel documento era comunque assai vago e non conteneva alcuni elementi fondamentali.
Altri dicono che il programma sia quello contenuto nella lettera della Bce firmata da Trichet e da Draghi inviata al nostro governo lo scorso agosto e parzialmente recepita nelle successive e raffazzonate manovre berlusconiane (con Tremonti alla finestra).
Conclusione: il futuro governo dovrebbe assumersi un durissimo compito di macelleria sociale che aumenterebbe la disistima della pubblica opinione verso la “casta”, cioè verso tutti i partiti aumentando pericolosamente il solco tra il Paese reale e le istituzioni.
Ebbene, a mio avviso questa diagnosi è completamente sbagliata.
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Il nuovo governo dovrà fare una scelta di fondo prima ancora di metter mano ai concreti provvedimenti che la realizzino e dovrà farla in pochissimi giorni.
Ma io credo che questa scelta sia già stata fatta e coincida con quanto sostengono da tempo sia Draghi (ormai insediato alla guida della Bce) sia il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: crescita e rigore, ma probabilmente prima crescita e poi rigore.
Francamente non so quanto questa scelta coincida con le ondivaghe indicazioni delle Autorità europee e soprattutto della Germania. Finora l´Europa e la Germania in particolare hanno privilegiato il rigore, ma gli effetti sono stati assai poco soddisfacenti.
Il rigore è certamente necessario per arrestare, anzi per far diminuire il peso dei debiti sovrani e il rischio d´un blocco del sistema bancario internazionale. I governi interessati – in particolare quello italiano – hanno cercato di eludere quella precettistica senza tuttavia imboccare la strada della crescita. Le conseguenze – già in parte verificatesi e ancor più incombenti – aggravano il rischio di una deflazione e insieme di un´emergente inflazione per mancata offerta di beni e servizi, cioè l´anticamera d´una devastante recessione.
La lettera della Bce dello scorso agosto e le numerose esternazioni successive di Mario Draghi segnalavano la necessità di abbinare rigore e crescita, ma per il primo indicavano anche misure e tempi, per la seconda formulavano solo esortazioni.
Successivamente, il 2 novembre, Draghi ormai nel pieno delle sue nuove funzioni, ha deciso con l´appoggio unanime del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, la diminuzione significativa del tasso di sconto dell´euro.
La sua prima mossa da Francoforte ha dunque indicato la via della crescita.
Obama dal canto suo è stato ancora più netto: ha esortato l´Europa a puntare sullo sviluppo produttivo, sulla creazione di nuovi posti di lavoro e su una rete di protezione dei disoccupati e dei lavoratori precari prima ancora di passare a nuove strette rigoriste.
Queste diagnosi e le conseguenti terapie dovrebbero – dovranno – costituire la base d´azione del futuro governo del Presidente. Lo definiamo così perché il nostro Presidente è il solo depositario della fiducia interna e internazionale ed è dunque il solo garante effettivo dell´azione di governo.
Uscito di scena Berlusconi non avremo più bisogno d´esser commissariati dalla Commissione di Bruxelles e dall´Fmi se non per il rispetto delle regole che abbiamo a suo tempo approvate con tutti i Paesi membri dell´Unione. Il controllo sulla situazione italiana sarà il Quirinale ad effettuarlo per quanto riguarda l´aderenza della sua politica alle scelte di fondo per uscire dal drammatico stallo in cui ci troviamo.
L´obiettivo è dunque chiarissimo: bisogna che il prodotto interno lordo cresca a ritmi più adeguati perché solo la sua crescita contribuisce a far diminuire il deficit e a far aumentare il saldo delle partite correnti.
Per ottenere questo risultato è necessario un aumento della domanda per consumi e investimenti e quindi uno sgravio fiscale consistente sul lavoro e sulle imprese. E poiché queste agevolazioni non possono esser fatte accrescendo il fabbisogno e quindi il debito, occorre spostare l´onere tributario dalle spalle dei più deboli a quelle dei più abbienti e degli evasori, dalle aziende alle persone, dai redditi ai patrimoni. Un´altra terapia riguarda i redditi dei disoccupati e dei precari affinché essi possano contribuire all´aumento della domanda. E qui si apre anche il capitolo delle pensioni.
Il nuovo governo dovrebbe impegnarsi alla costruzione di un patto generazionale tra padri e figli, facendo passare tutti gli attuali pensionati – con l´esclusione dei lavori usuranti – al sistema contributivo e ad un prolungamento dell´età pensionabile, a condizione che i risparmi derivanti da quest´operazione siano interamente destinati ad una nuova rete di “welfare” che preveda salari minimi di disoccupazione e copertura previdenziale sul lavoro precario discontinuo.
Infine, per quanto riguarda la riforma del lavoro, occorre adottare le proposte di Ichino e di Boeri che consentono maggior libertà di entrata e di uscita dal posto di lavoro, impedendo licenziamenti discriminatori e incentivando l´assunzione di giovani. Va da sé che l´evasione fiscale e il taglio delle spese superflue debbono essere tenacemente perseguiti. Per evitare che il miglioramento strutturale si accompagni ad ulteriori aumenti di spesa e di evasione come purtroppo finora è avvenuto.
Un governo di questa natura non ha certo davanti a sé una strada fiorita di rose, ma neppure di macelleria sociale.
È un programma di ricostruzione economica che manca da dieci anni, culminati nel disastro in cui ora ci troviamo.
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Ma un governo di ricostruzione non si può limitare al capitolo, pur di estrema importanza, dell´economia e della finanza.
Deve – dovrà – ricostruire l´etica pubblica devastata dal ventennio berlusconiano. Deve – dovrà – riformare la legge elettorale restituendo agli elettori la possibilità di scegliere i loro rappresentanti attraverso le preferenze o, meglio ancora, i collegi uninominali almeno per una parte notevole dei seggi in palio. E dovrà dimezzare il numero dei parlamentari, abolire i vitalizi degli ex membri del Parlamento, tagliare le spese politiche al centro e negli enti territoriali.
Ma deve soprattutto unire le forze della sinistra e quelle del centro nell´opera ricostruttiva che ha giganteschi appuntamenti: i giovani, le donne, i vecchi, il Sud, l´immigrazione, la lotta alla violenza e al crimine organizzato. Un anno non basta a realizzare questi obiettivi. Ci vorrà una legislatura costituente nel senso sostanziale del termine, come auspicò Aldo Moro quando promosse l´apertura al Pci di Berlinguer pochi giorni prima del suo rapimento.
Le sue parole – che ho ricordato su queste pagine due settimane fa – ancora risuonano per la loro attualità e sono oggi tanto più facili da tradurre in concrete decisioni in quanto non si tratta di un accordo tra forze antagoniste ma tra forze che torneranno ad essere alternative non appena la ricostruzione sarà stata avviata verso il suo compimento e nuove regole saranno entrate nella politica e soprattutto nel costume.
Mentre scrivo queste mie riflessioni una folla di aderenti e sostenitori del Pd si è riunita in piazza San Giovanni per dar forza al nuovo corso e arriva la notizia che sono più di venti i deputati che hanno abbandonato il Pdl. È un numero sufficiente per costituire subito un gruppo autonomo, ma è sensazione generale che lo smottamento continuerà in Parlamento e ancora di più tra i cittadini elettori. La svolta che questo giornale invoca da anni è dunque ormai un fatto compiuto.
Concludo con le parole del nostro Inno nazionale: Fratelli d´Italia, l´Italia s´è desta.

La Repubblica 06.11.11

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“La nave va? I dati e la verità sulla crisi”, di GIAN ANTONIO STELLA

L’ottimismo su ristoranti e alberghi «sempre pieni» autorizza
i cittadini a chiedere: se tutto va bene, perché dovremmo farci imporre riforme dolorose «Per lui il Paese luccica, per loro non c’è più latte per i bambini». Giuliano Ferrara descrisse così, anni fa, la guerra di propagande tra il Cavaliere e i suoi avversari. Il guaio è che quello sventolio di slogan opposti ha impedito all’Italia di capire davvero «come» sta. E la spalmata di ottimismo su ristoranti, aerei e alberghi «sempre pieni» autorizza i cittadini a chiedere: ma se tutto va bene, perché dovremmo farci imporre riforme dolorose?
Ernesto Galli della Loggia poneva il problema già nel marzo di tre anni fa, quando la crisi doveva ancora esplodere in tutto il suo devastante fragore: «L’Italia ha soprattutto bisogno di verità. Ha un gran bisogno che finalmente si squarci il velo di silenzi, di reticenze, spesso di vere e proprie bugie, che per troppo tempo il Paese ha steso sulla sua effettiva realtà, su che cosa è davvero e come funziona la società italiana».
Da allora, la situazione si è fatta più pesante. Lo dicono le tabelle dei Pil del Fmi, la disoccupazione giovanile salita al 29,3%, il crollo della competitività turistica, i ritardi enormi sul rete web, l’impennata ulteriore del debito pubblico, la denuncia dell’Associazione dei costruttori edili: «Il disegno di legge di Stabilità per il 2012 segna un ulteriore pesante calo delle risorse per nuove infrastrutture, pari al 13,6%, in termini reali rispetto all’anno precedente». Sul 2008 va peggio ancora: «Le risorse per nuove opere pubbliche subiscono una contrazione del 43%». Non mancano solo i soldi per il ponte di Messina: anche per la manutenzione.
L’ufficio studi della Cgia di Mestre ha elaborato, su dati Bankitalia, una tabella. Dice che le imprese che non ce la fanno a restituire i prestiti alle banche sono esposte per 75 miliardi e mezzo euro: il doppio che nel 2007. Le famiglie che non ce la fanno, di euro, ne devono 23 e 769 milioni: quasi 13 miliardi in più di quattro anni fa. Al punto che Giuseppe Bortolussi, direttore della Cgia, dice che queste famiglie, indebitate per oltre 19 mila euro a testa (oltre 27 mila a Roma o Milano) potrebbero «cadere nelle grinfie degli usurai». Colpisce la progressione dell’indebitamento dal 2002 ad oggi: +186% a Caserta, +198% a Taranto…
Rileggiamo le parole dette dal Cavaliere spiegando che la scelta dei mercati di scaricare i nostri Bond è una «moda passeggera»? «La vita in Italia è la vita di un Paese benestante. I consumi non sono diminuiti. I ristoranti sono pieni. Sugli aerei con fatica riesci a prenotare dei posti. I posti di vacanza nei “ponti” sono iperprenotati. Non credo che l’Italia senta qualche cosa che possa assomigliare a una forte crisi». Ma è così?
Prendiamo i voli «sempre pieni». Dice una tabella dell’Aea, l’associazione delle compagnie aeree europee, che nel 2011 fino a settembre il «load factor» (cioè il riempimento) degli aerei Alitalia è stato del 71,4% contro una media Aea del 77,6. Che si impenna con Air France all’80,4, con l’Iberia all’82, con la Klm all’84. Lo stesso amministratore delegato di Alitalia, Rocco Sabelli, tre settimane fa, diceva al Corriere che sulla tratta Milano-Roma, punto di forza, il riempimento medio è del 52%.
Colpa della nuova società? Difficile sostenerlo: pian piano i conti, a quanto pare, cominciano a tornare. Ma tutto si può dire, meno che gli italiani si svaghino volando e si fatichi a trovare posti a bordo… Per capirci, il «load factor» effettivo del 2007, per Alitalia, era molto più alto: 78,8%.
E gli alberghi «iperprenotati»? Nell’arco dell’estate, dice un’Ansa di fine settembre su dati di Michela Vittoria Brambilla, le cose sono andate abbastanza bene. Grazie agli stranieri, però: gli italiani in vacanza sarebbero stati 24,5 milioni. E non più per «villeggiare» un mese come un tempo. «La vita quotidiana nel 2010» dell’Istat spiega che la rinuncia totale alle ferie nel 2001 era determinata da motivi economici nel 33,1% dei casi: oggi questa quota è salita al 50,1%.
Quanto ai ristoranti «sempre pieni», dieci giorni fa, agli Stati generali di Confcommercio, Lino Enrico Stoppani, presidente Fipe, lanciava l’allarme: «Una crisi come questa ha fatto vittime e danni dovunque, anche nel settore dei pubblici esercizi. Premesso che non ci piace la cultura della lamentela inconcludente e inopportuna vista la gravità del momento (…) le cose vanno male…».
Quanto male? Prendiamo il Sole 24 ore di un anno e mezzo fa: «I dati che emergono su un campione di circa 5 mila locali (quelli recensiti nelle più importanti guide gastronomiche dall’ufficio studi Fipe) sono che il numero dei coperti nei ristoranti con fascia di prezzo più alta è diminuito del 54,5%». Di più: «Il consumo di vino è in forte calo (il 34,8% ha risposto che è in grande diminuzione, il 36,5% in diminuzione). Meno coperti, soprattutto a mezzogiorno e durante i giorni infrasettimanali, e meno vino determinano un netto calo di fatturato che, a fronte di costi fissi inalterati, ha provocato a molti ristoranti enormi difficoltà, a volte insormontabili…». E da allora, non va certo meglio.
Spiegano all’ufficio studi di Confcommercio: «Fino al 2008 se investivi un euro ricavavi prima della tassazione l’11% l’anno. Oggi 2,9%. Le piccole e medie imprese è meglio se se comprano i Btp».
È un errore dirlo? Il Cavaliere è convinto di sì. Tanto da sbuffare più volte contro «gli uffici studi» che «un giorno sì e uno no» diffondono notizie sulla «crisi di qua, crisi di là» finendo per «alimentare una crisi che ha origini soprattutto psicologiche». Ma è così? Sia chiaro: è giusto credere fino in fondo nell’Italia, negli italiani, nelle capacità di un Paese che nei momenti difficili ha saputo tirar fuori straordinarie risorse umane, imprenditoriali, intellettuali. E ben venga l’iniziativa del signor Giuliano Melani di invitare tutti a credere nel Paese e comprare titoli di Stato italiani. Ma un conto è avere la feroce determinazione di superare la crisi, un altro negare che questa sia mai esistita. Non si va da nessuna parte, senza partire dalla verità. Altrimenti, insistiamo, ogni italiano potrebbe chiedere: perché mai varare tagli, tasse e riforme dure se dopotutto la barca va?

Il Corriere della Sera 06.11.11