Già condannato a otto mesi di reclusione con una sentenza passata in giudicato per violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti, e quindi tecnicamente pregiudicato, il ministro delle Riforme Umberto Bossi, leader della lega Nord, è stato successivamente condannato anche per vilipendio della bandiera italiana. Una volta, il 26 luglio 1997, con la raffinatezza che notoriamente gli è abituale, disse tra virgolette: “Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo”. Un´altra volta, il 14 settembre di quello stesso anno, invitò pubblicamente una signora che aveva esposto la bandiera su un balcone a “metterla nel cesso”.
Nel primo caso, fu condannato a un anno e quattro mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, ma poi la Cassazione lo condannò in via definitiva. Nel secondo caso, la Camera dei deputati non ha concesso l´autorizzazione a procedere nei confronti di Bossi; la Corte costituzionale ha annullato la delibera di insindacabilità parlamentare; poi la pena detentiva originariamente prevista per il reato d´opinione è stata derubricata in una pena pecuniaria e infine la Cassazione ha confermato la condanna a tremila euro di multa.
Con questi precedenti a carico, se non per il decoro della sua carica istituzionale, il ministro Bossi dovrebbe stare più attento a non commettere altri reati: per esempio, quello di istigazione a delinquere (l´articolo 414 del Codice penale prevede la reclusione da uno a cinque anni, se si tratta di delitti). “Prima o poi spaccheremo la faccia a chi sui giornali continua ad attaccare la mia famiglia”, ha dichiarato nei giorni scorsi il Senatùr in una circostanza solenne come la Sagra della zucca, a Pecorara in Val Tidone, nel Piacentino. E giustamente il presidente della Federazione nazionale della stampa, Roberto Natale, ha protestato definendo “inaccettabili” gli insulti e le minacce del ministro.
Ora è vero che, come predicava lo stesso Bossi nel lontano 1995, sul piano dell´informazione l´Italia non è un Paese democratico e anzi assomiglia sempre più a un Paese sudamericano. Ma questo deriva proprio dall´anomalia che risale a Silvio Berlusconi, alla sua concentrazione televisiva e pubblicitaria, al suo macroscopico conflitto di interessi. Cioè a quel medesimo capo del governo di cui il Senatùr è rimasto nel frattempo il principale e ormai unico alleato, complice o correo che dir si voglia.
Se nella sua intimidazione contro i giornalisti il leader della Lega si riferisce alle notizie sul pensionamento anticipato della moglie, rivelate recentemente da Gianfranco Fini a Ballarò; oppure alle ironie e alle contestazioni sull´erede al trono designato, il figlio Renzo soprannominato “il Trota”, in entrambi i casi deve prendersela soltanto con se stesso. Sono colpe sue. “Un politico – come teorizzava nel ´94 Augusto Minzolini, proprio lui, il domestico di Berlusconi che ancora apparecchia la tavola del Tg 1 – è un uomo pubblico in ogni momento della sua giornata e deve comportarsi e parlare come tale”.
Semmai Bossi dovrebbe apprezzare il fatto che finora i giornalisti italiani non hanno infierito sulle sue condizioni di salute psico-fisiche, evidentemente compromesse e precarie, che fanno parte anch´esse della sua figura pubblica e potrebbero legittimare qualsiasi dubbio o interrogativo sulla sua lucidità o affidabilità istituzionale. Quando il ministro farfuglia davanti ai microfoni e ai taccuini; quando si trascina sostenuto per le braccia o per le ascelle; quando si abbandona a dodici sbadigli durante l´intervento di Berlusconi in aula a Montecitorio; o quando si esibisce nel suo ampio repertorio di gestacci e pernacchie, gli organi d´informazione hanno tutto il diritto di criticarlo. Il rispetto per l´uomo non può interferire con il giudizio sull´uomo di governo.
Con appena l´8,5 per cento dei voti raccolti ormai tre anni fa, finora Bossi ha avuto in mano le sorti dell´esecutivo e quindi del Paese. E almeno fino a quando ricopre l´incarico di ministro, è tenuto a comportarsi di conseguenza, con “disciplina e onore” come prescrive la Costituzione a cui ha giurato fedeltà. Altrimenti, non fa il bene del Paese, del governo e neppure della Lega: vale a dire dei suoi elettori, dei suoi parlamentari e dei suoi amministratori pubblici.
La Repubblica 05.11.11