In commissione ambiente al Senato, dove il ministro Stefania Prestigiacomo si è ancora una volta indignata e dunque arresa alla mancanza di soldi per mettere in sicurezza questo Paese, avrebbero dovuto convocare e ascoltare Antonio Guadagnucci e sua figlia Michela. Anzi, avrebbero dovuto riceverli al consiglio dei ministri, uno dei tanti, ma in particolare uno di quelli in cui – e qui ci aiuta il ministro – si è deciso che per il dissesto idrogeologico non ci sono fondi. «Il Piano è ancora fermo al palo».Comela vita di Antonio e Michela. Lui perse la moglie Nara Ricci e l’altro figlio Mattia, dodici mesi fa, nell’altra alluvione, a Lavacchio, mezza casa crollò, lui era nell’altra metà. Michela invece era a festeggiare Halloween. «Non chiedo soldi – spiega – ma ho perso la casa che con mia moglie avevo costruito con grandi sacrifici. Da allora sono stato abbandonato, nonostante le tante promesse. Vivo in affitto in una casa provvisoria, ne vorrei una mia per far vivere mia figlia in sicurezza». È stato anche ospite delle suore, come altre famiglie della zona: otto di queste non sono ancora rientrate nelle loro case. È passato un anno. I lavori di risistemazione del paese – finanziati per 2 milioni di euro – non sono ancora cominciati. Questa testimonianza sarebbe arrivata diretta, più vera del solito lamento di Stefania Prestigiacomo, che si arrabbia, litiga con Tremonti, con tutti, ma poi accetta, e si vergogna tanto da essersi evitata la visita ai luoghi recentemente alluvionati. «Con il decreto legge di agosto tutte le risorse Fas, incluse quelle del dissesto, sono state cancellate. Al mio ministero non è stata assegnata alcuna risorsa». Dice poi di aver rastrellato «150 milioni» durante la discussione sulla legge di Stabilità. Li definisce lei stessa «assolutamente insufficienti».
TRE TEMPI DIVERSI Queste disgrazie hanno tre tempi: la prevenzione, che i governi a ogni livello trascurano e mortificano, con concessioni edilizie insensate: probabilmente questa è la causa che ha portato via metà della famiglia Guadagnucci, ma le perizie della procura non sono ancora state ultimate, 368 giorni dopo i fatti. E ieri il procuratore di Massa – dopo le prime indagini – ha definito scellerate le scelte urbanistiche intorno al fiume Magra. Il secondo tempo è l’alluvione, gli smottamenti, i morti, l’emozione, l’arrivo dei riflettori, dei volontari. La promessa dei soldi. Poi c’è il terzo tempo: progettazione e cantierizzazione degli interventi, sostegno alle vittime e alle imprese, perché c’è da ricostruire un tessuto sociale che il fango si è portato via. Il lavoro non c’è, la comunità si disgrega. Questo è il cruccio degli aquilani, questo è l’urlo dei veneti, finiti sott’acqua l’autunno scorso: settecento famiglie trevigiane di 48 comuni diversi e le imprese della Marca aspettano ancora i 27 milioni stimati come risarcimento danni. La regione ha stanziato (ma non liquidato) circa 6 milioni. Quando arriveranno, per molte imprese sarà solo una beffa, non riusciranno a rianimare attività che ovviamente necessitano di continuità. È un disinteresse vizioso. Funziona come per la mancata prevenzione. Mettere in sicurezza una zona pericolosa costa circa sette volte meno che rimediare successivamente i danni del territorio: dal dopoguerra a oggi lo Stato ha speso 270 miliardi di euro per l’emergenza successiva ad alluvioni e terremoti. Mettere in sicurezza il territorio italiano costa 40 miliardi: queste le proporzioni. Il ragionamento si può estendere al terzo tempo suddetto: un’azienda che chiude porta diverse famiglie a vivere rinunciando a uno stipendio. Provocando il calo dei consumi, con contrazione degli affari per le altre aziende della zona. Tutto un territorio sarà economicamente depresso e socialmente sfibrato. Per evitare questo la Cgil spezzina ha fatto in fretta i conti, segnalando – e spesso visitando – le situazioni critiche nel tessuto lavorativo della provincia devastata il 25 ottobre. Una mappa puntuale, stesa dal segretario della Camera del Lavoro, Lorenzo Cimino. «Non tutte le aziende sono nelle stesse condizioni. Alcune non esistono quasi più, altre dovranno stare ferme per mesi». Nella mappa a fianco quattro porzioni sono “tagliate” e servite, per farsi un’idea. La Inter Marine costruisce cacciamine per eserciti esteri, motovedette per lo Stato. Ha subito tre alluvioni in tre anni, qualcuno sussurra che Roberto Colaninno (il proprietario è lui) sia stufo, e pensi di trasferire il cantiere sull’Adriatico. «Non lo faremo, ma non possiamo perdere 3 mesi di lavoro ogni anno…», spiega l’ad Livio Corghi, conscio di avere in dote il destino di 600famiglie. «Ci promisero soldi dopo l’alluvione del 2009: non abbiamo visto un euro». Follo, Borghetto, Brugnato Ameglia, Albiano, Bolano, Vezzano: nomi già dimenticati, anche se il fango è ancora lì. Il sindacato cerca di ricordarli, a tutti. S’intrecciano attività individuali o familiari e ditte (edilizia, impiantistica, lapideo, manifatturiero) in cui lavorano dai 10 ai 60 dipendenti. Il territorio delle Cinque Terre è fatto di micro imprese. Ruotano intorno al turismo e ai servizi legati allo stesso: 50 attività commerciali e cooperative, 300 lavoratori. La sopravvivenza passa dal recupero delle strutture, oggi completamente distrutte. Altre imprese – magari danneggiate,ma ancora in piedi – fronteggiano invece lo sfarinamento di servizi essenziali: strade, linea telefonica, poste. Bisogna fare molto e in fretta, servono soldi e serve la politica. Serve un governo.
L’Unità 04.11.11