Come uscire dalla crisi e come dare nuove energie al processo di integrazione aggredito dagli egoismi nazionali. Parlano Perissich e Graglia. Il 14 settembre Jacek Rostowski, ministro delle finanze della Polonia, lo stato che detiene la presidenza di turno dell’Ue, si presenta all’Europarlamento e pronuncia un discorso, all’interno del quale c’è un passaggio che lascia impietriti. Questo: «Dobbiamo salvare l’Europa a tutti i costi. La possibilità di una guerra nei prossimi dieci anni è uno scenario che dobbiamo contemplare».
Da Rostowski alla cancelliera tedesca Angela Merkel. Intervenendo il 27 ottobre al Bundestag per spiegare ai parlamentari la necessità di approvare le misure emergenziali contro la crisi, frau Angela afferma: «Non diamo per garantiti altri cinquant’anni di pace e prosperità. Se crolla l’euro, crolla l’Europa (…) Nessuno di noi può prevedere le conseguenze in caso di fallimento». E giù a scrivere, la stampa, che la Merkel evoca scenari apocalittici.
Fa senz’altro effetto, visto che l’Europa che conosciamo nasce dopo la Seconda guerra mondiale proprio per scongiurare bagni di sangue e conciliare i due grandi belligeranti del vecchio continente, Francia e Germania, sentire che un ministro del paese che ha la presidenza semestrale dell’Ue e la cancelliera della nazione europea di stazza maggiore dicano simili cose.
Ma bisogna puntualizzare. Sostiene Riccardo Perissich, ex funzionario comunitario e autore di L’Unione europea, una storia non ufficiale (Longanesi, 2008): «Rostowski ha usato un’espressione esagerata, forse condizionato dalla biografia del suo paese. La Merkel ha cercato di scuotere i tedeschi, chiamati più degli altri a contribuire al salvataggio dell’euro in questo momento di difficoltà».
Mentre Piero Graglia, docente di Storia dell’integrazione europea alla Statale di Milano e autore di Altiero Spinelli (il Mulino, 2008), spiega che «c’è senz’altro stato un eccesso di retorica e la retorica può drammatizzare oltremodo la realtà. Il fatto, comunque, è che alla crisi finanziaria si lega un arretramento a livello di cultura europea».
Il punto è proprio questo. Il punto è che l’Europa registra una pausa che sta diventando troppo, troppo lunga. Più una regressione che una pausa, scandita da egoismi nazionali, tatticismi esasperati e indecisioni. Le frasi di Rostowski e Merkel vanno inserite in questa cornice e interpretate come un avvertimento severo sul prezzo dell’inazione.
Ci si chiede, allora, come uscire dal pantano, come recuperare la spinta all’integrazione e all’amalgama, come ridare vigore alla vocazione europeista. A tutto ciò, in altre parole, che sta dietro a quella che dopotutto resta la migliore idea partorita dal Ventesimo secolo.
L’abbiamo chiesto proprio a Perissich e Graglia. Sono loro a fare le carte all’Europa, analizzando da principio i sintomi del male. È il caso di cominciare proprio dalla Germania, paese chiave dell’integrazione comunitaria. «A Berlino c’è un indubbio arretramento dello spirito europeista. Degli impulsi della generazione di Kohl rimane poco. Già Schröder – a parlare è Riccardo Perissich – fu tiepido verso l’Europa. Merkel non ha vissuto gli anni della costruzione comunitaria e quindi non ha assimilato pienamente i valori e le liturgie a essa legati».
La sua azione, durante questa crisi, ragiona Perissich, va giudicata su due piani: quello tedesco e quello europeo. «A livello domestico ha fatto una paziente e tutto sommato riuscita opera di educazione di un’opinione pubblica fondamentalmente ripiegata su se stessa, che dopo aver pagato per l’ex Ddr non ha molta voglia di sacrificarsi ancora».
Sul piano comunitario, invece? «Abbiamo avuto l’immagine di una cancelliera estremamente prudente, lenta e molto imprevedibile rispetto agli orientamenti classici della Germania. Il salvataggio della Grecia costa più di quanto sarebbe potuto costare proprio perché la reazione tedesca è stata macchinosa. Questo si spiega anche con il fatto che Berlino non ha voluto agire da sola. Ha cercato l’appoggio francese, perché dei francesi ha sempre bisogno. Ma la Francia di Sarkozy, dal punto di vista tedesco, è inaffidabile, eccessivamente gollista. Inaffidabile è anche l’Italia, terza economia dell’eurozona. È così che Merkel ha dovuto da un lato spiegare ai connazionali perché si deve salvare l’euro; dall’altro sta negoziando con i francesi le modalità del salvataggio e della gestione della crisi. I risultati non sono il massimo».
Germania, Francia, Italia. Anche Graglia si sofferma sul terzetto, sottolineando come i tre motori della storia comunitaria stiano peccando di egoismo nazionale. La vicenda relativa a Lorenzo Bini Smaghi la dice lunga. «Chiedendone le dimissioni si viola il principio d’indipendenza della Banca centrale europea, quindi i trattati comunitari. Questa storia è la cifra di come l’Europa sia più che mai sottoposta alle pressioni nazionali». Che derivano, a sentire Graglia, dal fatto che l’euro, senza una guida politica, è una faccenda difficile da governare. «Quando fu introdotto gli americani prospettarono, in assenza di uno strumento politico, destabilizzazioni e incertezze. Purtroppo quella profezia si sta avverando».
Appurato lo scenario complessivo, poco incoraggiante, si può provare a guardare avanti, cercando di capire che ne sarà dell’Europa.
Possiamo scriverne il necrologio o c’è la possibilità di recuperare la volontà di fare l’Europa? Perissich: «Tutti hanno coscienza del costo di un eventuale fallimento, quindi questo conforta, nel senso che la volontà di risolvere la governance dell’euro c’è e da qui si potrà ripartire. Il rischio, però, è che una volta superata la crisi l’Europa si scinda al suo interno. Chi resterà fuori dall’euro e chi non riuscirà a entrarci rimarrà marginale, perché l’asse dell’Europa s’è ormai spostato dal mercato alla moneta unica».
Anche Piero Graglia posiziona l’obiettivo sulle plurime velocità europee, in particolare sulla divisione tra i due polmoni continentali, quello occidentale e quello orientale. «Se da una parte l’est ha visto l’Europa più come un’erogatrice di fondi che come un’entità politica, c’è da dire, dall’altra, che l’ovest non ha aiutato i nuovi membri».
La crisi può appesantire il problema, che è tuttavia precedente all’intruppamento economico. Il quadro è quello che è. Però non bisogna rassegnarsi. «Perché – chiosa Graglia – la storia c’insegna che l’Europa, davanti alle grandi crisi, è sempre riuscita a progredire. Nel 1971, quando l’amministrazione Nixon eliminò la convertibilità del dollaro in oro, facendo crollare uno dei pilastri dell’economia mondiale post-bellica, le monete europee registrarono una batosta. Ma si decise, proprio allora, di aprire la strada all’Ecu, l’antenato dell’euro, dando all’integrazione una prospettiva chiara e forte».
Il vantaggio, insomma, è che questa crisi, come le precedenti, può indurre a guardare avanti, a fare l’Europa, a impedire che l’idea migliore del Ventesimo secolo appassisca. A patto che si sappia coltivare questo vantaggio. Non ci saranno guerre, questo è fuori discussione.
Ma l’Europa, senza il recupero di una sana cultura europeista, non sarà più la stessa. E chissà come andrà a finire.
da Europa Quotidiano 02.11.11