Al telefono Merkel e Sarkozy ripetono: fare presto. Il governo vuole il maxiemendamento in aula al Senato il 16. Il premier irritato dagli appelli di Montezemolo e Monti. Nel giorno dell’ennesimadisfatta delle Borse, il panico nel governor aggiunge il livello di guardia. Il lunedì nero di Piazza Affari&co spaventa: se i mercati non credono all’esecutivo né alle istituzioni europee che garantiscono per lui, la strada si fa davvero in salita. Per tutti. Berlusconi lo ha capito. Glielo hanno fatto capire: ieri c’è stato un giro di telefonate a tutto campo, con Draghi, con Bruxelles. Ha parlato con Merkel e Sarkozy con cui aveva avuto colloqui bilaterali: «Dobbiamo fare fronte comune, non per amore ma per necessità. È una crisi globale che riguarda tutti». I ministri al lavoro sulle misure economiche hanno insistito: «Silvio, a Cannes ti aspettano con le baionette puntate». Bisogna fare in fretta – è stato il refrain della giornata – Bisogna arrivare al G20 con le misure in tasca. Facile a dirsi. Le acque sono agitate anche dentro la maggioranza. La lettera di Mario Monti, il
“manifesto” di Montezemolo hanno irritato il premier e allertato i frondisti nel partito. Soprattutto gli autori della “lettera scomparsa” degna di un giallo di Edgar Allan Poe. I parlamentari nel guado, per il momento, hanno nascosto la mano,ma non certo rinunciato a gettare il sasso appena verrà il momento opportuno. Il Cavaliere sa di giocarsi la partita
decisiva. E ha disegnato l’ultima road map tra disperazione e voglia di contropiede. E dunque, addio al decreto Sviluppo, troppo complicato e impossibile da approvare. Come
annunciato da Romani, sarà abbandonato al suo gramo destino. Si punta tutto, invece, sulla legge di stabilità, l’ex Finanziaria che mercoledì comincia l’iter in commissione Bilancio
al Senato e gode di unacorsia preferenziale per l’approvazione in tempi stretti. Anche ricorrendo al voto di fiducia, se necessario. Per molte ore Berlusconi ha accarezzato l’idea di convocare un consiglio dei ministri giovedì mattina. Prima di prendere l’aereo per la Francia. Obiettivo: varare un«maxiemendamento» che riproponga il grosso delle misure economiche richieste dall’Europa. Poi ha rinunciato: «Quello che dovevo fare l’ho fatto».
Il maxiemendamento finirà nella legge di stabilità destinata ad andare in aula il 16 novembre. Con l’obiettivo di approvarlo in un paio di settimane. Dentro ci sarà il «pacchetto Brunetta» tra liberalizzazioni, rimozione dei vincoli all’impresa e alla concorrenza, dismissioni del patrimonio pubblico, alleggerimento della burocrazia. Ma anche fondi strutturali, misure per il Sud e per l’occupazione femminile e giovanile. Il tentativo
è quello di presentarsi al summit globale se non con le “carte in regola” almeno con una tempistica snella. E con la speranza che i leader mondiali gli credano e il mercato poi
creda a loro. Il Pdl, invece, non gli crede più. Il tesseramento è stata una lotta senza esclusione di colpi per prenotarsi una fetta di potere nel “dopo Berlusconi”. In Parlamento continua la fuga: scontento Vizzini, distante Antonione. Verdini, infaticabile, tenta agganci e recuperi: anche con Sardelli. Il voto sulla manovra economica autunnale si annuncia
come il prossimo campo di battaglia. I Repubblicani sono già perplessi. Gli uomini di Micciché, come il senatore Fleres, ex pidiellini che hanno formato Forza del Sud, avvisano che gli interventi per il Mezzogiorno sono insoddisfacenti. «Non si può andare avanti così – si sfoga una deputata – È peggio di un vicolo cieco: in fondo c’è il baratro». Nell’ottica di molti parlamentari il vicolo cieco è un lungo periodo all’opposizione, il baratro è la mancata rielezione che per molti è dietro l’angolo. Diversi azzurri, con il dente avvelenato per l’aggressività degli ex An, se la prendono con i’incauto acquisto delle Maserati di La Russa. «Col clima che c’è non poteva accontentarsi?». E un senatore, considerato tra i più
impegnati sul fronte della “lettera degli scontenti”, riflette. «Cannes per Berlusconi è l’ultima spiaggia. L’ultima occasione di fare qualcosa di serio prima che il castello gli crolli addosso. Il problema è che rischia di diventarlo anche per noi».
L’Unità 01.11.11
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“Euro, una svalutazione pilotata per resistere”, di VINCENZO VISCO
Se i Paesi in deficit sono costretti a politiche restrittive, quelli più forti devono cambiare strategia compiere scelte espansive. L’Italia decida ora o sarà tardi. Nei ragionamenti e nelle discussioni sulla situazione e i problemi economici attuali emerge una certa confusione, talvolta un uso improprio di argomentazioni valide in un contesto diverso. Cerchiamo di chiarire alcuni punti:
A) con la grande crisi finanziaria iniziata nel 2007 e tuttora in corso, si sono prodotte una frattura e una discontinuità evidenti: una intera fase storica dell’economia mondiale e del capitalismo, quella iperliberista inaugurata dalle riforme di Reagan e Thatcher, sembra essersi (catastroficamente) conclusa. Del resto il modello di sviluppo che era stato messo in azione assomigliava come una goccia d’acqua a quello prevalente dall’inizio del secolo scorso, sfociato nella grande crisi del 1929-‘33. Non è un caso, quindi, che anche la teoria economica sottostante sia stata messa in discussione e che sia oggi in corso un dibattito teorico approfondito che riguarda l’adeguatezza dei modelli macroeconomici, il ruolo della moneta e della finanza, i compiti delle banche centrali, il sistema monetario internazionale, la regolamentazione dei mercati e delle banche. La conclusione di questi dibattiti richiederà tempo, ma non c’è dubbio che esiste un problema di legittimazione per l’analisi economica tradizionale, e si affaccia un problema ben più serio di legittimazione della stessa organizzazione dei sistemi economici attuali e cioè del capitalismo liberista: infatti
l’accettabilità di un sistema economico-sociale risiede nella sua capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, cioè di produrre reddito, occupazione, crescita, opportunità, e
di farlo in modo accettabile dal punto di vista dell’equità. Il passaggio attuale è quindi ben
più complesso di quanto molti abbiano finora percepito: nonostante che tra gli economisti ma ancora di più tra i politici (soprattutto quelli che si reputano e vengono considerati «più moderni»), esistano non pochi orfani tuttora inconsapevoli del decesso del padre, la discontinuità rispetto al passato recente si manifesterà in concreto in modo inevitabile.
Questi cambiamenti sono già in corso sia pure faticosamente e si riflettono nella radicalizzazione delle posizioni politiche, dal tea party al movimentodegli indignati negli Stati Uniti, nell’elaborazioni recenti della Chiesa cattolica, nel dibattito in corso nei partiti della sinistra.
Tuttavia un nuovo coerente e diviso paradigma di riferimento per la riorganizzazione delle economie per il futuro ancora non esiste; anzi vi è molta confusione in giro. Questo fa sì che (soprattutto in Italia) le critiche al modello di sviluppo neoliberista che vengono avanzate siano immediatamente interpretate (e distorte) come nostalgia per una economia statalista, dominata da politici e sindacalisti, burocratica e sprecona. E in effetti bisogna riconoscere che il pericolo di riesumare (magari inconsapevolmente) il passato remoto, mentre si critica il passato prossimo, è presente: la necessità di recuperare un ruolo rilevante per la funzione di regolazione dell’economia da parte degli Stati e delle autorità sovranazionali, nonché di recuperare autorevolezza per la funzione politica, non coincide affatto con la riproposizione di modelli organizzativi e culturali tipici degli anni anni 50 e 60 del secolo scorso.
B) La crisi ha prodotto anche in Europa un aumento dei disavanzi e dei debiti pubblici che hanno fatto emergere problemi piuttosto seri, problemi relativi alla sua interpretazione
e gestione e che riflettono la difficoltà (anche culturale) di procedere ad una modifica del funzionamento tradizionale del sistema economico europeo. Fondamentale è stata in proposito la posizione della Germania. In Europa si è affermata una singolare inversione del rapporto causa-effetto per quanto riguarda la relazione tra crisi debiti e disavanzi. Mentre è del tutto ovvio che è stat la crisi economica a far lievitare i disavanzi e i debiti di tutti i paesi, in Europa si sostiene che sono stati i disavanzi e i debiti dei paesi periferici dell’Unione a determinare la crisi, e quindi si prospettano e si impongono a tutti i paesi interventi restrittivi che avranno l’effetto sicuro di mandare in recessione l’economia dell’intero continente, e che rischiano di mettere in crisi l’Euro e l’intera economia mondiale. Criticare questo approccio è quindi legittimo e doveroso. Il fatto è che la crisi finanziaria ha rappresentato uno choc esterno non previsto che ha evidenziato i limiti ben noti della costruzione dell’Euro con un ruolo limitato della Banca Centrale, e senza politica fiscale comune. A queste carenze si è aggiunto il riflesso nazionalistico che ha coinvolto i principali paesi forti della zona Euro inducendoli ad un atteggiamento antagonistico e punitivo nei confronti dei paesi periferici, con la conseguenza di decidere interventi di sostegno sempre tardivi, sempre insufficienti, e sempre più costosi: se la Grecia fosse stata salvata un anno e mezzo fa la crisi dell’Euro non si sarebbe mai manifestata.Ed infatti oggi l’Europa si trova nella situazione paradossale che in presenza di un debito complessivo dei paesi della zona Euro pari all’85% del Pil, il costo del suo finanziamento
risulta fortemente superiore a quello di Stati Uniti, Regno Unito e Giappone che si trovano in situazioni peggiori. Il fatto è che i paesi dell’ex zona del marco accusano i «pigs» di avere approfittato dell’introduzione dell’Euro e della riduzione dei tassi di interesse per evitare di mettere in ordine le loro finanze pubbliche o per finanziarie bolle speculative
nei mercati domestici (free-rating); ed è difficile dare loro torto. Al tempo stesso però questi paesi dimenticano di avere approfittato dell’Euro che risulta svalutato di circa il 40% a quello che sarebbe stato il valore del marco per inondare gli altri paesi conle loro esportazioni senza sostenere la crescita comune dell’Eurozona. In altre parolem l’accusa di free-rating si può estendere anche a loro. In conclusione la politica corretta che l’Unione dovrebbe seguire oggi è molto semplice e molto diversa da quella posta in essere: i Paesi in deficit dovrebbero attuare politiche restrittive (come stanno facendo) ma quelli in surplus dovrebbero espandere, e la Bce dovrebbe accompagnare tale strategia con una politica monetaria accomodante, senza nessun rischio di inflazione, pilotando una svalutazione limitata dell’Euro. Di ciò bisognerebbe discutere apertamente in sede europea per far maturare una consapevolezza che oggi non c’è.
C) Comes i colloca la situazione italiana in tale contesto? L’Italia presenta una sua specificità che la differenzia non solo dagli Stati Uniti ma anche dagli altri grandi Paesi europei. Aver accumulato un enorme debito pubblico negli anni 80, ed aver lasciato svanire il surplus primario (5,5% del Pil) trasmesso in eredità dai governi di centrosinistra nel 2001, ha fatto sì che la discesa accelerata del debito pubblico si arrestasse e che la dinamica della spesa pubblica continuasse. Al tempo stesso la necessità di riformeutili
a rimettere in moto un processo di crescita è stata ignorata, con la conseguenza di una stagnazione del reddito e una insufficiente creazione di posti di lavoro; così l’impatto della crisi è stato enorme (-6,5% del Pil tra il 2008 e il 2009) e la ripresa lenta e insufficiente. Ora i nodi sono venuti al pettine nella inconsapevolezza dell’opinione pubblica che è confusa disorientata e arrabbiata, e non capisce e non accetta la necessità di sacrifici.
Le polemiche contro il neoliberismoo gli errori delle politiche europee sono giuste e possono servire ad aumentare la consapevoleza dell’opinione pubblica ma non sono di grande aiuto, anzi non sono neanche pertinenti, rispetto alla soluzione dei nostri problemi che vengono da lontano e sono sempre gli stessi. Non resta che affrontarli con consapevolezza, determinazione ed equità. Berlusconi e Tremonti non lo hanno fatto e non sembrano in grado di farlo. È bene essere consapevoli che la rinuncia ad interventi immediati ed adeguati sarebbe molto più costosa, anche politicamente, degli interventi stessi.
L’Unità 01.11.11