C’è stato un tempo, molto tempo fa, in cui ho creduto fortemente che questa nostra professione, quella d’insegnante, rappresentasse di per sé una condizione elettiva, intrinsecamente nobile, profondamente etica. Con il passare degli anni sono rimasta di questo avviso rispetto al concetto, ma ho compreso, giorno dopo giorno, che si tratta di un’idea astratta, fortemente condizionata dalle caratteristiche di chi la concretizza e la interpreta. E che, come ovunque, tra noi insegnanti c’è di tutto: motivazione, orgoglio, dedizione, competenza, responsabilità e l’esatto contrario. Come ho quindi rivisto le mie romantiche e ingenue convinzioni precedenti, nello stesso modo ho rifiutato le ricette di facile impatto che, misto di arroganza e demagogia, i nostri governanti hanno artatamente spalmato sul nostro lavoro e sulla nostra identità professionale, soprattutto negli ultimi lustri. A un Berlusconi che prometteva, con la consueta eleganza, durante la campagna elettorale del 2001, di «ricoprire d’oro gli insegnanti», risponde un Brunetta, che – nel corso della sua infelicissima (per noi) e purtroppo non ancora conclusa esperienza di ministro – ha gettato fango sulla scuola e sui docenti («I nostri insegnanti lavorano poco, quasi mai sono aggiornati e in maggioranza non sono neppure entrati per concorso, ma grazie a sanatorie», ebbe a dire qualche giorno prima della più straordinaria e democratica manifestazione della scuola pubblica, il 30 ottobre 2008), cavalcando il trend inaugurato da alcuni Soloni dell’editoria, che da anni pontificano sugli insegnanti e sulla loro inettitudine, sentendosi autorizzati a parlare di scuola solo per il fatto di averla – in un tempo più o meno lontano – frequentata (mi riferisco a Giavazzi, Ichino, Panebianco, Galli della Loggia, per fare i primi nomi che mi vengono in mente).
Il mio amico Alvaro Berardinelli, insegnante come me impegnato nella costruzione di competenze di cittadinanza per giovani abitanti di un mondo senza padri (e con molti padroni), mi ha mandato lo stralcio di un lavoro di un suo alunno di IV ginnasio, che mi piace condividere con i lettori. È una frase che ci racconta una prospettiva. L’idea che, nonostante il disinvestimento, l’incuria, spesso addirittura il dileggio (rispondenti, indipendentemente da ciò che scuola e insegnanti sono davvero, ad un preciso progetto di creazione di consumatori acritici a basso costo), buoni maestri (magis-ter è colui che conta di più all’interno di un gruppo) e il suo esempio servano ancora al futuro dei nostri ragazzi: «Ci sono delle persone che ancora combattono per cambiare il mondo in meglio, ed essi sono i professori: essi trasmettono agli alunni i valori giusti (la pace, la libertà, la democrazia e la tolleranza), sanno che naturalmente non tutti riusciranno ad apprenderli al meglio, ma essi continuano a combattere, perché sanno che gli altri, con la loro conoscenza, riusciranno a cambiare il mondo in meglio». E che qualcuno, ancora, riconosca il valore emancipante della cultura. Meglio, molto meglio, se un ragazzino di 14 anni.
da Adista