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"L'Europa imperfetta e diffidente", di Giuliano Amato

Diciamo la verità. In questa Europa nella quale ciascuno ha preso a sentire la compresenza dell’altro come fonte di fastidi e di sgraditissimi vincoli, soprattutto nell’Eurozona, si comincia a guardar fuori ai Paesi liberi di fare quello che ritengono delle loro economie e delle loro valute e si sente per loro una inconfessabile invidia.

Gli Stati membri più indebitati, sotto il peso delle condizionalità che devono subire e schiacciati dal mercato appena il cancelliere tedesco o il presidente francese storcono il naso nei loro confronti, notano che il Regno Unito e il Giappone, con debiti non meno pesanti, sono trattati dal mercato assai meglio. Ma anche nei Paesi forti come la Germania sta crescendo l’insofferenza, davanti agli esborsi, reali e potenziali, dovuti a responsabilità che i loro cittadini ritengono a buon diritto altrui.
Eccoci allora a sentirci tutti insieme come se l’euro, anziché essere un grande e comune beneficio, fosse una gabbia in cui ci siamo cacciati e come se, dovendo stare insieme nella gabbia, la cosa migliore fosse per noi ignorare le buone ragioni della nostra convivenza, ma litigare l’uno con l’altro. Ha scritto venerdì scorso Timothy Gordon Ash (in Italia lo ha pubblicato “La Repubblica”) che l’Europa è oggetto di dibattiti vivi come mai in passato.

Ma ne esce una «cacofonia delle nostre democrazie nazionali», dove al «dovete» della Germania risponde il «non possiamo» della Grecia e all’«è essenziale» di Nikolas Sarkozy risponde l’«è impossibile» di Angela Merkel.
È un clima pessimo, nel quale tutti percepiamo che, per salvare l’euro, servirebbero fra di noi più cooperazione e più integrazione.
Ma siccome siamo tutti scontenti e infastiditi l’uno dall’altro, prende corpo invece una sindrome di ostilità (il nostro stesso presidente del Consiglio ne parrebbe colpito), che può rendere impossibili i passi necessari in quelle direzioni. Insomma, siamo né più né meno nella condizione dei coniugi che si stanno scordando perché si sono sposati e della loro convivenza cominciano a vedere i soli lati negativi. Se nulla li ferma, sono su uno scivolo che li porta al divorzio.

Ebbene, se siamo in questa situazione non è per caso, ma perché la crisi finanziaria ed economica più devastante della storia ci ha colto in una fase di passaggio, nella quale avevamo sì la moneta unica, ma con grandissima lentezza, e con ritrosie altrettanto grandi, stavamo appena apprestando le politiche e gli strumenti comuni per farla funzionare al meglio e quindi per avvalercene tutti nel modo più appagante. Già negli anni scorsi, dopo i primi sforamenti dei parametri di Maastricht, ci eravamo resi conto che dovevamo andare oltre le procedure di coordinamento esistenti. C’è voluta la crisi per farcelo fare e abbiamo inventato il semestre europeo per fissare dei paletti comuni nei bilanci nazionali, il fondo salva-Stati, un interventismo della Banca Centrale europea sul mercato dei titoli pubblici che solo tre anni fa sarebbe stato impensabile.
Ma è stata proprio questa la fase che ha visto crescere la nostra insofferenza reciproca. E non casualmente, perché sono state le novità che essa ha introdotto a portare anche esborsi di danaro degli uni a beneficio degli altri, accompagnate da mazzate di austerità volute dagli uni a carico degli altri.
Ammettiamolo, non è facile volersi bene in una situazione del genere ed è per questo essenziale che un po’ di bene lo si continui a volere al disegno europeo di cui tutti siamo partecipi e che si continui inoltre a capire la immutata convenienza, per tutti e per ciascuno, di quella moneta unica che sembra chiederci oggi tanti sacrifici. È vero, in questo momento ci appaiono non solo più liberi, ma anche più in grado di fronteggiare il mercato il Regno Unito e il Giappone, che possono manovrare le proprie politiche monetarie in funzione delle loro esclusive esigenze e, alla peggio, svalutare le rispettive valute e riprendere a respirare così.

Ma lo sappiamo benissimo che queste armi non solo non assicurano affatto contro i rischi peggiori, ma possono poi rimbalzare addosso a chi le usa, negando l’accesso al mercato finanziario, ovvero consentendolo a condizioni assolutamente onerose e portando alla fine a mazzate anche peggiori di quelle imposte prima alla Grecia e ora, in buona misura, alla stessa Italia.
È meglio allora rendere meno difficile la nostra difficile convivenza, sapendo peraltro che non vi sono soluzioni semplicistiche. Così, quando si chiede per la nostra Banca Centrale il ruolo di garante di ultima istanza dei nostri debiti pubblici, così come accade – si dice- per le altre Banche centrali, si chiede in realtà qualcosa di più e di diverso. Le altre sono Banche centrali di Stati, che garantiscono il debito pubblico dei medesimi e quindi un debito che grava su tutti i loro contribuenti. A fronte della nostra Banca Centrale e della moneta che essa amministra non c’è uno Stato, ce ne sono, per ora, diciassette e ci sono quindi diciassette debiti pubblici, col che ogni garanzia prestata da una istituzione comune è vissuta diversamente dai contribuenti dei diversi Stati.

Al contribuente tedesco, perciò, non si chiede lealtà verso la sua unica patria, si chiede solidarietà verso altri, sia pure in nome di un interesse comune. È stato ricordato che qualcosa di simile accadde nei primi anni di vita degli Stati Uniti, quando fu chiesto alla Federazione di farsi carico dei debiti degli Stati membri più deboli. La Virginia si oppose, ma alla fine essa stessa accettò. È vero ed è utile rammentarlo ai tedeschi. Ma è anche vero che in quel caso gli Stati membri si erano già uniti in uno Stato federale. Noi no.
E allora? Allora il mondo è un mare in tempesta, si levano onde mai viste e rischiamo ogni giorno di sbattere in scogli che non conosciamo. Non ci sono solo debito e spread, c’è un percorso di crescita da trovare in un mercato in cui a crescere e a produrre ormai sono in tanti, c’è un pianeta la cui vivibilità è sempre più difficile assicurare e c’è un concerto internazionale in cui su tutto questo decidono interlocutori sempre più robusti.

Vale dunque per tutti, per la stessa Germania, che non conviene calare ciascuno la propria scialuppa in un mare del genere. Ci si sente momentaneamente più liberi, ma poco dopo si è in balia delle onde.
Certo, non possiamo rendere l’Europa d’un colpo perfetta, ma almeno potremmo renderla più simpatica. Se i passaggi inesorabilmente tormentati verso l’integrazione finanziaria fossero accompagnati da azioni europee visibilmente capaci di innalzare la crescita di tutti (non le enumero qui, ma ce ne sono diverse a portata di mano), di sicuro il clima che c’è fra di noi cambierebbe. E torneremmo a vedere uno scopo nei sacrifici e nella solidarietà, che lo stare insieme ci chiede. Che i santi protettori d’Europa (ne abbiamo coerentemente più d’uno) ne illuminino i leader.

Il SOle 24 Ore 30.10.11