L’Italia comincerà a vendere titoli di Stato anche su internet, con una campagna pubblicitaria ad hoc, a partire dalla primavera 2012. Il successo di analoghe iniziative di banche private (Mediobanca tra le altre) spinge online il ministero del Tesoro, impegnato l’anno venturo in un safari a caccia di 250 miliardi di euro, per sostenere il famelico debito dei 1900 miliardi. Sembrerebbe una notizia positiva, anche le nuove tecnologie mobilitate per salvare il Paese e l’euro, se non cadesse, nelle stesse ore, l’occhio sul Punto D, della «Lettera di intenti» che il governo ha inviato all’Unione europea promettendo riforme strutturali contro la crisi e per la crescita. Il Punto D si ammanta di un titolo cruciale «Sostegno all’imprenditorialità e all’innovazione», è lungo appena 16 righe, e non ha il tono un po’ da vecchio notaio del resto del documento, tra un antiquato «Resesi» e un burocratico «Efficientamento». Il «sostegno all’imprenditorialità» è replica dell’agenda proposta dal 2008, ma la vera sorpresa – negativa – è sull’«innovazione». Perché delle 16 righe non una, anzi neppure una parola, è spesa su progetti, proposte, impegni a favore dell’economia digitale.
Andremo sul web cercando di piazzare qualche Bot, ma non abbiamo nulla da dire sul web per creare ricchezza, lavoro, start up, ricerca. Tv, giornali e internet ancora grondano commozione per il genio perduto di Steve Jobs, ma le lacrime italiane sono di coccodrillo digitale, perché non un euro, non un’idea, neppure una banale promessa elettorale, è spesa sulla Digital economy. E se ieri i mercati hanno confermato lo scetticismo sulle nostre riforme, mandando i Bot decennali al record negativo, anche i silenzi del Punto D hanno di certo contato. Il mercato sa che chi non innova muore. La Rete si è accorta per prima della mancanza di un progetto digitale e sul «Daily Wired» Marina Pennisi ha dato voce alle preoccupazioni di aziende e operatori. In un Paese che da un decennio non cresce, con la disoccupazione giovanile cronica, specie al Sud e tra le donne, con un bastione però formidabile di ricchezza privata alto 9.000 miliardi di euro, fra quadri informatici spesso di ottima qualità, davvero non era possibile far di meglio? Per comprendere il valore della nuova frontiera per lavoro e sapere, il lettore dia un’occhiata, anche frettolosa, al Rapporto McKinsey: «Già oggi, se misurati come settore indipendente, i consumi e le spese relative a internet sono superiori all’agricoltura o all’energia. Internet rappresenta il 3,4% del prodotto interno lordo dei Paesi G8, Brasile, Cina, India, Sud Corea e Svezia». L’economia internet eguaglia la potenza economica del Canada, ma cresce a un ritmo più veloce del Brasile. Il settore che l’Italia non considera nelle sue promesse all’Unione Europea è il solo che sia in crescita ovunque. Se il mercato globale riduce l’occupazione nel mondo occidentale, il web invece crea 2,6 posti di lavoro per ognuno che si è perduto, chiudendo il gap che semina rancore nell’opinione pubblica. Una ricerca mondiale su un campione di 4.800 piccole e medie imprese stima la crescita legata al web al 21% negli ultimi dieci anni, il doppio del decennio precedente e malgrado la crisi paralizzante del 2007.
Le speranze che gli Stati Uniti nutrono di mantenere la leadership economica sono tutte legate all’innovazione, di cui detengono ancora il 30% del mercato e il 40% dei profitti, grazie a un buon equilibrio fra hardware, software e comunicazione e a un formidabile network di laboratori e aziende. Regno Unito e Svezia incalzano, soprattutto sulle telecomunicazioni, India e Cina crescono «nell’ecosistema internet a un tasso del 20% annuo». Inseguono Francia, Germania e Canada, più indietro Giappone, Russia, Brasile.
E l’Italia? I rapporti a disposizione (Digital advisory group, Akamai) concordano sul 2% del Pil legato alle nuove tecnologie, 700.000 posti creati, 1,8% in più di quelli perduti. Per comprendere il potenziale di crescita della nuova economia su cui il governo tace, in Francia internet crea già 2,4 posti per ognuno perduto. Il nostro Paese, la seconda manifattura europea invidiata anche dal Financial Times, reticolo di piccole e medie imprese, non sembra realizzare che le tecnologie sono il solo passaggio al futuro, la sola salvezza per i piccoli nel mercato globale. McKinsey (2011) stima che i due miliardi di esseri umani che lavorano su internet producono effetti immediati e clamorosi sulle Pmi: le piccole aziende che innovano a partire da internet, e-commerce e software hanno un aumento della produttività del +10%. E in un confronto diretto fra Pmi dello stesso settore, quelle che scelgono di ideare e produrre con sistemi web 2.0 hanno una crescita doppia sui concorrenti legati a modelli tradizionali.
Inutile ripetere la tiritera sui mancati investimenti per la banda larga, gli 800 milioni promessi e mai spesi, i 4.300.000 cittadini costretti a collegamenti lumaca, la rincorsa sulla fibra ottica, sul mobile, su Lte4g, su Wimax. Inutile fare l’elenco delle assenze, siamo indietro, non rafforziamo scuola, università, start up, Pmi e nessuno sembra scaldarsi più di tanto.
Si deve augurare ogni fortuna al safari del Tesoro per vendere Bot online in primavera. Ma il silenzio sul punto D della «Lettera di intenti» è la resa insieme del governo e della classe dirigente tutta, paralizzati davanti alla rivoluzione digitale tra l’Arsenico delle polemiche politiche e i Vecchi Merletti di un modo di fare industria decrepito. Ogni riforma economica, ogni dibattito culturale, ogni manifesto di maggioranza o opposizione, dovrebbe partire dalla proposta di un nuovo Punto D: D come futuro, ricchezza, cultura Digitale.
La Stampa 29.10.11