L’era di Kyoto è alla fine. Non è stata un successo. Il Protocollo ratificato da 191 Paesi (ma non dagli Stati Uniti) doveva agire da moltiplicatore degli sforzi per limitare il surriscaldamento del pianeta: per qualche tempo c’è riuscito ma non nella misura voluta. Ora sta lentamente spegnendosi. In un rapporto pubblicato ieri dalle Nazioni Unite e dal World Resources Institute di Washington si legge che «le emissioni (di gas serra, ndr) stanno ancora crescendo e gli impegni per azioni di riduzione future, in aggregato, sono inferiori a quanto la scienza suggerisce essere necessari».
Soprattutto, succede che la crisi finanziaria mondiale ha bloccato — anzi, ha fatto retrocedere — molti degli sforzi che si stavano facendo per ridurre le emissioni di gas a effetto serra: nessuno vuole più prendere impegni, costa troppo. Stati Uniti, Canada, Giappone e Russia hanno già comunicato che non firmeranno alcun nuovo accordo vincolante quando il regime attuale di Kyoto cesserà, a fine 2012; i Paesi emergenti, guidati da Cina e India, hanno confermato, se ce n’era bisogno, che non penderanno impegni se non volontari; persino l’Unione europea, finora all’avanguardia sulle questioni del clima, sta facendo passi indietro.
Alla fine di novembre si terrà a Durban, Sudafrica, la riunione annuale della Convenzione sul cambiamento del clima. È di grande rilievo perché in teoria dovrebbe chiarire cosa succederà quando, alla fine dell’anno prossimo, gli impegni presi da molti Paesi sulla base del Protocollo di Kyoto non saranno più vincolanti. Non c’è però alcuna speranza che si possa arrivare a un Kyoto Due, cioè a un nuovo protocollo sulla base del quale un certo numero di Paesi, in particolare quelli ricchi, si assumano l’obbligo di ridurre le proprie emissioni di quantità predeterminate. Molti funzionari dell’Onu, sotto la cui egida la Convenzione si tiene, ritengono che Durban sarà «successo o rottura». L’ambasciatore del Paese ospite che guida l’organizzazione dell’incontro internazionale, il sudafricano Nj Mxakato-Diseko, dice però che «parlare di qualsiasi strumento vincolante sarebbe irresponsabile, molto irresponsabile». Di più: «Persino iniziare a suggerire — aggiunge — che il risultato di Durban deve essere uno strumento legalmente vincolante sarebbe irresponsabile perché farebbe collassare il sistema». Ambizioni minime, insomma, da parte di chi organizza, per non fare crollare tutto.
Il problema, ovviamente, è il denaro. In piena crisi finanziaria e con rischi di una nuova recessione all’orizzonte, i governi non sono disposti a impegnare risorse per la riduzione delle emissioni, nemmeno a costringere le proprie industrie ad affrontare i costi che comporta emettere meno gas serra. Che gli Stati Uniti non aderiscano a un Kyoto Due non stupisce, nonostante le promesse del presidente Obama di cambiare passo sul tema del clima. Ma il ritiro dal regime di Kyoto di Giappone e Canada, in passato difensori del Protocollo, è una novità. Ancora più sorprendente è quanto ha dichiarato nei giorni scorsi Jos Delbeke, direttore generale della Climate Action della Ue. «Gli europei — ha detto — si pronunceranno politicamente a favore del Protocollo di Kyoto» ma non si legheranno ad alcun nuovo patto a meno che «altre parti non entrino nel club». L’Europa, insomma, non vuole essere la sola a tagliare le emissioni e a gravare di costi le sue imprese rendendole meno competitive in una fase come questa. Secondo stime della Commissione di Bruxelles, l’obiettivo di ridurre entro il 2020 le emissioni di gas serra del 20% rispetto al livello del 1990 già costa alla Ue quasi 50 miliardi l’anno. In più, alcuni grandi gruppi industriali minacciano di delocalizzare le produzioni se i costi continueranno a crescere.
Le preoccupazioni per il cambiamento del clima, insomma, nel pieno della crisi sono crollate, nella lista delle priorità. Anche un impegno che era stato preso un anno fa alla conferenza di Cancún, in Messico, rimane disatteso: si tratta di creare un fondo, il Green Climate Fund, che dal 2020 dovrebbe dare cento miliardi di dollari l’anno ai Paesi poveri per combattere l’aumento delle temperature e i suoi effetti; finora, però, non si è fatto alcun passo avanti sul dove trovare il denaro e sul come poi gestirlo. «Questo non è il periodo migliore per parlare di finanza perché tutti i Paesi sviluppati sono in una crisi finanziaria», ammette Christiana Figueres, la segretaria esecutiva della Unfccc, la Convenzione dell’Onu sui cambiamenti climatici. La signora Figueres deve fare la faccia ottimista in vista della riunione di Durban e dice di puntare a «un’ampia cornice» di accordi che combini un secondo round di Kyoto accettato dai Paesi ricchi con alcuni impegni che dovrebbero prendere quelli poveri. Ma è oltremodo cosciente delle difficoltà economiche che gran parte del mondo sta vivendo.
Il guaio è che il pianeta continua, imperterrito e noncurante della crisi, a scaldarsi troppo. Una nuova analisi, condotta da un gruppo di scienziati californiani — Berkeley Earth Surface Temperature — ha analizzato i dati di un miliardo e seicento milioni di rapporti sulle temperature terrestri e ha stabilito, sembra in misura piuttosto solida, che negli scorsi cinquant’anni la superficie del pianeta ha visto aumentare la sua temperatura di 0,911 gradi centigradi. È quasi la metà dei due gradi di surriscaldamento che — dicono molti scienziati — provocherebbero le peggiori catastrofi, dalle inondazioni alle siccità; ed è una misurazione che potrebbe togliere ogni dubbio sulla realtà dell’innalzamento globale della temperatura. Che non è detto sia del tutto dovuto all’attività umana. Ma che consiglia comunque di cercare una nuova «strategia del clima», probabilmente non più fondata sul porre limiti astratti alle emissioni ma sulla ricerca e magari su una carbon tax globale. Per chiudere, senza fuggire, l’era di Kyoto.
Il Corriere della Sera 28.10.11