Sono propositi molto ambiziosi, alcuni anche a forte rischio politico, quelli consegnati ieri dal governo italiano alle autorità europee. Ma come può sperare di trasformarli in legge un governo che solo ieri alla Camera è andato in minoranza due volte su questioni di poco peso? Del resto il ministro dell’Economia, che dalla stesura della lettera è stato in buona parte escluso, non è parso tenerne gran conto quando ha parlato ieri mattina alla Giornata del Risparmio.
Spicca nei nuovi impegni, ad esempio, una maggiore libertà di licenziamento per le imprese. Il centro-destra tentò già di introdurla nel 2002-2003, quando disponeva in Parlamento di una maggioranza assai ampia, e dovette desistere di fronte a una manifestazione di protesta tra le più vaste mai viste in Italia. Per giunta le parole di Mario Draghi ieri confermano che questa misura non compare tra le richieste dalla Banca centrale europea.
Al contrario, appaiono inconsistenti gli impegni sulla previdenza, dove le autorità europee avevano chiesto di fare di più già dal 2012. I requisiti per le pensioni di anzianità, l’onere più pesante per il nostro sistema, «sono stati già rivisti», si legge. E’ ben vero, come afferma il governo, che ormai il sistema pensionistico italiano è «tra i più sostenibili in Europa», dato che molti altri stanno peggio; ma la Ue ci ha consigliato di intervenire ancora perché si tratta di uno dei settori più importanti di una finanza pubblica nell’insieme poco sostenibile.
Nulla di nuovo anche per i conti complessivi dello Stato. Di fronte al timore delle autorità europee che le misure già prese non siano sufficienti a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, il governo ripete una spiegazione dettagliata di ciò che ha già fatto, aggiungendo soltanto che sarà pronto a intervenire in caso di scostamenti dagli obiettivi.
Tra le novità, compare l’impegno a vendite e valorizzazioni di beni pubblici per 5 miliardi all’anno, compresa una ampia privatizzazione di aziende controllate dagli enti locali. Questo l’Europa lo chiede; per realizzarlo occorre un governo solido, capace di imporsi alle amministrazioni locali di ogni colore, che da questo orecchio, quasi tutte, non ci sentono. Lo stesso vale per la liberalizzazione delle professioni, finora bloccata in Parlamento da lobbies possenti nella maggioranza, con agganci anche nelle opposizioni.
D’altra parte, è la lettera stessa a rivelare il suo limite, nel prolisso elencare provvedimenti già presi da mesi e non realizzati per carenza di consenso politico. Come si farà a decidere in fretta le misure nuove, se è già così lunga quella delle misure ancora in corso d’opera? E perché poi insistere con tutte quante le proposte di revisione costituzionale, quando all’Europa ne interessano solo due, il pareggio di bilancio e l’abolizione delle Province? Con una maggioranza parlamentare nelle condizioni in cui si trova, le complesse procedure per cambiare la Costituzione rischiano soltanto di rallentare misure assai più urgenti ed efficaci anche nel breve periodo.
Le prime reazioni dall’Europa sembrano positive. Sulla carta, infatti, c’è parecchio: una lista davvero lunga di propositi, buoni o non a seconda dei gusti. Ma forse si tratta solo di far finta di fare, in modo di togliere gli altri governi europei dall’imbarazzo. Altrimenti avrebbero dovuto spingersi a compiere un passo finora nuovo e inesplorato nella storia dell’Unione, provocare la crisi di un altro governo. Ma attenzione: secondo alcuni esperti finanziari, se i tassi del debito pubblico italiano, ora vicini al 6%, salissero oltre il 6,2-6,3%, la crisi di sfiducia nel nostro Paese potrebbe divenire irreversibile; e tutte le forze dell’Europa non basterebbero a salvarci.
La Stampa 27.10.11