In politica fare previsioni è sempre azzardato. Ma rispondere alla domanda che tutti si fanno, in queste ore, è davvero impossibile. Perché l’esistenza del governo è appesa non solo al filo della difficilissima intesa con la Lega sulle pensioni, ma alla credibilità delle promesse contenute nella lettera che il premier, oggi, si porta in tasca per presentarla al nuovo vertice europeo.Se l’accordo, o il mezzo accordo, proclamato ieri sera porterà solo aggiustamenti minimali e poco incisivi al nostro sistema previdenziale, la reazione dei nostri partner stranieri e, soprattutto, quella dei mercati finanziari potrebbe sopraffare il desiderio della coppia Berlusconi-Bossi di evitare, in questo momento, le elezioni anticipate.
C’è un’unica scienza, invece, in grado di prevedere il futuro, almeno quello prossimo, con sufficiente attendibilità: la demografia. Una disciplina del tutto trascurata dai nostri politici, perché ha due caratteristiche molto scomode. Non consente quella flessibilità d’interpretazione che aiuta a giustificare le tesi più disparate e, soprattutto, le giravolte più spericolate. Ma ha un difetto, poi, davvero imperdonabile: si occupa, appunto, del futuro. Un tempo che proprio non interessa quella politica così ossessivamente preoccupata del consenso che si raccoglie oggi, non della gratitudine che si otterrà domani.
Ecco perché è spesso sulle pensioni che i governi si spaccano o rischiano di spaccarsi e perché, su questo argomento, la confusione delle idee e, soprattutto, la contraddizione delle parole è sempre al massimo. Eppure, la negletta demografia parla con un linguaggio che tutti capiscono e che si può riassumere in pochi dati. In Italia stanno andando in pensione le classi più numerose, quelle del «baby boom» scoppiato dal dopoguerra alla fine degli Anni 60. Il nostro Paese ha, tra quelli più sviluppati, un solo record, quello degli anni in cui si gode la pensione. Un risultato ottenuto da quasi due primati, quello della fine precoce del periodo di lavoro e quello della più lunga aspettativa di vita. Gli italiani, in media, usufruiscono della pensione per 23 anni; le italiane addirittura per 27.
Con un mercato del lavoro che registra un’alta percentuale di disoccupazione giovanile e una spesso lunga precarietà, le vie d’uscita, se non si vogliono tagli drastici agli incassi mensili dei pensionati, sono solo due: o si alza l’età in cui si smette di lavorare o ci si deve augurare un’epidemia che colpisca gli anziani del nostro Paese in maniera micidiale. Le altre nazioni europee, scartando evidentemente la seconda strada, hanno già provveduto a imboccare la prima.
I motivi per cui, in Italia, si fa così fatica ad accettare la scontata conseguenza di quanto ci dice la demografiasono altrettanto semplici. Sindacati e politici difendono i loro iscritti e i loro sostenitori. I primi hanno ormai una maggioranza composta da pensionati o pensionandi e rappresentano soprattutto coloro che lavorano in aziende mediograndi,con contratti a tempo indeterminato. I secondi non hanno nessun interesse ad accaparrarsi il consenso delle future generazioni. Per capirlo non serve la matematica, basta l’aritmetica: i giovani, rispetto agli anziani o ai quasi anziani, sono pochi e non conviene barattare il suffragio dei tanti che desiderano smettere il più presto possibile di lavorare con i consensi, labili e futuribili, di elettori che, magari, non saranno più chiamati a votare per loro.
Gli effetti politici di questa realtà sono evidenti nella confusione, nella demagogia, nelle contraddizioni dei principali protagonisti della nostra classe politica. Cominciamo dalla Lega, anche perché l’attualità giornalistica dello scontro nella maggioranza l’impone. C’era un suo ministro, nel 2004, che non era un omonimo di Roberto Maroni, ma era proprio lui, l’attuale capo del dicastero dell’Interno, che firmò una legge sul cosiddetto «scalone» pensionistico. Prevedeva l’immediato e drastico (di ben 3 anni) innalzamento dell’età per smettere di lavorare. Ma quella legge, sostenuta e varata con convinzione dall’allora ministro del Welfare, sempre lui, Roberto Maroni, fu abrogata, tre anni dopo, dal centrosinistra arrivato al governo. Se quel provvedimento fosse stato attuato, non avremmo risolto, magari, tutti i nostri problemi previdenziali, ma sicuramente saremmo molto più avanti sulla strada per risolverli.
E’ perlomeno curioso che, oggi, sia lo stesso Maroni ad affiancarsi a Bossi nella resistenza fermissima a «toccare le pensioni». Come sorprende la disponibilità del Pd, ora, ad accettare la drastica cura che ci chiede l’Europa sul tema, visto il passato atteggiamento di quel partito, determinante per ottenere la cancellazione di una legge che andava proprio incontro a quelle esigenze. E’ proprio vero che la coerenza, in politica, è una virtù, per usare un lessico vaticanesco, del tutto «negoziabile». Dipende dalla posizione parlamentare, in maggioranza o all’opposizione, non dal merito della questione a cui si è di fronte. Tanto alle capriole si trova sempre una giustificazione.
La Stampa 26.10.11