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"Come la crisi del 2008 lavora solo chi fugge e chi ha una laurea", di Luigina Venturelli

Inchiesta tra le agenzie di gestione di risorse umane. «La curva attuale è simile a quella di tre anni fa: recessione». Domanda di impiego ferma per le mancate scelte del governo. Ma gli ingegneri meccanici sono richiestissimi oltre confine. La curva di mercato di queste ultime settimane è speculare a quella registrata nell’autunno del 2008 all’esplodere della recessione economica». La batosta che incombe sui lavoratori italiani sta tutta in questa considerazione,
grafici alla mano, dell’amministratore delegato di Manpower, azienda leader nella gestione delle risorse umane. Vale a dire, società che si occupa d’intermediazione di mano d’opera, in posizione d’osservazione privilegiata su quanto sta accadendo in questi giorni nel mercato del lavoro: «I primi otto mesi di quest’anno sono stati estremamente positivi, la crescita si era attestata intorno al 22%, ma l’impatto delle notizie sulla crisi internazionale e italiana è stato immediato» afferma Stefano Scabbio. «A settembre l’incremento è rallentato al 12% ed il mese di ottobre chiuderà molto vicino alla soglia del 5%».
Dunque le imprese non hanno atteso di vedere l’ultima puntata della vicenda della Grecia, da mesi ormai sull’orlo del fallimento. Tantomeno hanno deciso di aspettare le battute finali del supposto decreto sviluppo, ormai disperando in un qualsiasi esito utile del provvedimento del governo. Hanno preferito agire subito di fronte alle incertezze del momento, fermando gli investimenti e bloccando le nuove assunzioni di personale, che pure erano state messe in programma in vista di una pur timida ripresa produttiva. Niente da fare. «Sembrava di essere usciti da questa crisi, invece sarà di nuovo lacrime e sangue. Siamo indubbiamente preoccupati: la situazione di difficoltà è comune a tutta Europa, ma l’Italia soffre di un handicap maggiore, perché non è in grado di creare domanda interna di lavoro, a causa di una politica che non decide e di un’economia che non cresce» continua il manager di Manpower.
Un vero peccato, visto l’enorme capitale nazionale di manodopera specializzata, di capacità artigianali e di potenzialità logistiche: «Invece stiamo qui a subire un dumping salariale pazzesco, mentre i capitali si spostano dove il lavoro costa meno. E a discutere dei due miliardi di euro d’investimenti della Fiat quando, se solo riuscissimo ad attrarre gli stessi investimenti esteri di un paese medio come l’Olanda, potremmo contare su qualcosa come 57 miliardi di euro all’anno».
L’allarme occupazionale riguarda, ovviamente, le professionalità di basso profilo, operai ed impiegati non specializzati, perché i lavoratori con capacità e qualifiche ben definite (quelli con retribuzioni superiori ai 50mila euro all’anno) possono contare su un mercato sempre in crescita del 20%.
Eppure si tratta di professionalità che anche le agenzie di lavoro interinale con centinaia di filiali in tutto il paese fanno fatica a trovare, soprattutto per il lamentato scollamento
tra il nostro sistema formativo ed il mercato del lavoro. Non a caso le società di intermediazione hanno deciso investimenti diretti nella formazione del personale. Un altro colosso del settore come Adecco ha stanziato solo per il 2011 circa 20 milioni di euro, tra l’altro, per l’apertura in Val di Sangro di un istituto tecnico scientifico che fornisca due anni di corso post-diploma per creare i profili professionali richiesti dalle aziende della zona nell’immediato futuro. Ma esiste un altro problema tutto italiano al reclutamento di lavoratori altamente specializzati: la fuga dei cervelli, maledizione nazionale che incombe non solo sul sistema universitario di ricerca, ma anche sul sistema produttivo più avanzato. «Per i profili più qualificati lavoriamo anche sull’estero, attraverso divisioni specializzate che sarebbe impossibile coprire in ambito nazionale. Diciamo così, centri d’eccellenza, come quello che abbiamo costituito per il settore petrolchimico» spiega l’amministratore delegato di Adecco, Federico Vione. «Il mercato italiano non è molto attrattivo per i giovani ad alto potenziale, sia per ragioni retributive, sia per ragioni di prospettive future. Quindi se ne vanno all’estero».Secondo la stima elaborata dall’Istat in collaborazione con il Cnr, sono circa 3mila i giovani cosiddetti «ad alto potenziale» che ogni anno lasciano l’Italia in cerca lidi lavorativi adeguati alle proprie aspettative.
Basti l’esempio del settore metalmeccanico, che da queste parti non sta certo vivendo un momento felice, come possono testimoniare le migliaia di dipendenti del Lingotto che hanno trascorso gran parte di quest’anno in cassa integrazione. Oltre i confini nazionali la situazione è ben diversa: «I miei colleghi di Monaco sono alla disperata ricerca di ingegneri meccanici, visto che una nota azienda automobilistica tedesca ha urgente bisogno di procedere a duemila assunzioni», racconta il direttore generaledi Randstad, MarcoCeresa. A peggiorare la situazione italiana, poi, concorre «la notevole rigidità del mercato del lavoro».Ma attenzione, non si tratta di rigidità normativa, bensì di «rigidità mentale, anche da parte delle aziende, che hanno ormai stereotipato il profilo del lavoratore da assumere e così rischiano di mancare i propri obiettivi». Secondo il dirigente del gruppo Randstad, infatti, «le imprese vogliono
tutte persone giovani, sotto i 40 anni, che non abbiano alcuna intenzione di chiedere il part-time,maanzi siano disponibili oltre l’orario di lavoro full-time, e che non costino troppo». E pagano le pesanti conseguenze di questa loro rigidità: «In questo modo possono non riconoscere la persona giusta al posto giusto, quella che fa davvero la differenza. Noi abbiamo fatto assumere anche persone di cinquant’anni, magari dopo un periodo formativo specifico, e i risultati nelle aziende sono stati più che buoni».

L’Unità 25.10.11

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“Senza ricerca non c’è futuro”, di Pietro Greco

Convocati dalla Cgil, sette sindacati del Vecchio Continente si interrogheranno, oggi e domani a Roma, sull’impatto della crisi economica su Università e Ricerca in Europa. In molti paesi dell’Unione la crisi finanziaria inizia ad avere un impatto sul mondo della scienza e dell’alta educazione. Alcuni Paesi – con l’Italia in primissima fila – stanno tagliando i fondi alla ricerca e alla formazione. È un clamoroso errore a cui i sindacati più avvertiti vogliono mettere riparo. Tuttavia il tema proposto dalla Cgil e dagli altri sindacati può e deve essere visto anche in maniera speculare: «Impatto dell’Università e della Ricerca sulla crisi economica in Europa». La tempesta finanziaria che sta mettendo alle corde molti Paesi del nostro continente e, per certi versi, la stessa Unione Europea rischia di nascondere un dato più strutturale. Che riguarda l’economia reale. Quella che produce beni e merci di scambio. Tranne alcuni Paesi – in generale la fascia che parta dalla Scandinavia e giunge fino alle Alpi (ahinoi senza oltrepassarle) con al centro la Germania – l’Europa fa fatica a competere sui mercati internazionali proprio nell’ambio del commercio internazionale di beni. Ebbene, una componente strategica dell’economia reale – sia perché più ricca e dinamica, sia perché remunera di più i lavoratori – è quella che produce beni ad alta tecnologia (o meglio, ad alto tasso di conoscenza aggiunto). Questo tipo di industria è legato, a sua volta, al settore della ricerca scientifica e dell’alta educazione. Esiste, in particolare, una correlazione molto forte (anche se non del tutto lineare) tra la produzione di beni hi-tech, la definizione di lucide politiche industriali e gli investimenti in ricerca e alta educazione. Lo dimostra la storia economica, recente e meno recente, degli Stati Uniti e del Giappone. Lo dimostra la storia, recentissima, dei paesi a economia emergente: Cina, India, Corea del Sud. Ma anche Brasile e ora anche Sud Africa. Non è un caso che i due paesi che hanno avuto le maggiori performances economiche degli ultimi venti anni, Cina e Corea del Sud, hanno avuto anche la più grande accelerazione (la derivata più positiva, direbbero i matematici), negli investimenti in ricerca scientifica e in alta educazione. Tanto che la Cina ha di recente superato gli Stati Uniti per numero di ricercatori (1,4 milioni) e la Corea detiene il record mondiale di laureati nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni. Ebbene l’Europa non riesce a tenere questo passo. Pochi se ne sono accorti. Ma da un paio di anni i 27 paesi dell’Unione investono in ricerca meno della media mondiale. Non era mai accaduto. Non nell’ultimo mezzo millennio, almeno. D’altra parte è facile riscontrare come l’unico frammento della frammentata Unione che riesce a tenere il passo economico del resto del mondo siano la Germania e i paesi che dalla Scandinavia alle Alpi le ruotano attorno. Ed è facile riscontrare che i paesi investiti dalla crisi finanziaria – Grecia, Italia, Spagna – siano anche quelli che meno di altri riescono a competere nel settore dell’economia reale, che hanno una specializzazione produttiva in beni a media e bassa tecnologia, che non hanno una lucida politica industriale. Se vogliamo tentare di uscire dalla crisi non bastano i tagli di bilancio. E non basta neppure rincorrere una generica crescita. Occorre una politica industriale (e culturale) capace di qualificare la crescita. Indirizzandola verso la produzione di beni ad alto tasso di conoscenza aggiunto, maggiore remunerazione del lavoro, maggiore sostenibilità ecologica. Solo la sinistra può darsi un simile progetto, se ne prende piena coscienza. È consolante sapere che la Cgil e altri sei sindacati europei nei prossimi giorni lanceranno un Manifesto di Roma, Università – Ricerca per uscire dalla crisi che si basa su questi presupposti.

L’Unità 25.10.11