«Io faccio caccia grossa» dice, e non è solo un mitomane, è un filosofo teoretico della ribalderia. Valter Lavitola è il bracconiere di Stato che racconta se stesso così: «Quando sparo a un animale pericoloso, pure se è caduto io, dopo che è caduto a terra, gli sparo un´altra volta». E, parola dopo parola, il pescivendolo diventa il trucido protagonista della Pulp Fiction italiana: «Poi gli metto la canna del fucile vicino all´occhio per vedere se si muove». «E poi gli risparo un´altra volta pure se è morto. E che ci perdi, una cartuccia ? Che te ne fotte?».
Poi però il feroce cacciatore lavora ai fianchi le segretarie-perpetue che diventano infatti la sua risorsa, anche se non lo rispettano: Marinella è «bella» ed è pure «la freccia alata», e Nadia è «tesoro mio». Le segretarie lo disprezzano perché, meglio di tutti, conoscono ed interpretano i veri umori del «capo», ma sono loro che glielo fanno trovare nella macchina, lo infilano in un ufficio, gli ritagliano dieci minuti: «Tu ti piazzi nella nostra anticamera e nel momento in cui escono dalla sala…». Molto più dei dialoghi diretti con Berlusconi è questo “cha cha cha della segretaria” che svela in Lavitola il losco cameriere che sfrutta ed alimenta le miserie del padrone: «Mica c´è pure Letta all´appuntamento?». Oppure: «Sei riuscita a dare “quella cosa” a Schifani?». Dietro tutto quello sparare sui morti c´è dunque la volontà di potenza dei servitori. Lavitola è il Nietzsche delle perpetue.
E infatti le segretarie sono le sole che sanno misurare l´enormità delle patacche che in nome del capo Lavitola confeziona. Lo scandalo, per esempio, non è Lavitola che promette a Scarpa un ministero: «So che è il momento tuo, toccati le palle, ho parlato con Lui». Lavitola dice “Lui” con il tono rotondo e teatrale del maiuscolo, e Scarpa non gli ride in faccia ma gli crede. Lavitola sembra Totò Sciosciammocca che manda Pasquale a chiedere, in cambio di un vecchio cappotto, trenta metri di salsiccia, venti chili di pasta, dieci confezioni di salsa, otto litri di vino, una scatola di sigari… Dice Lavitola: «… e Lui mi ha detto: “cazzo, è vero!” abbiamo Scarpa». Ebbene, Scarpa non replica come Pasquale a Totò: «Hai il cappotto di Napoleone?». In un mondo senza più regole, dove non valgono né titoli né talenti, Lavitola è davvero il Napoleone di Berlusconi, è la prima rana che sul serio è diventata bue. Al punto che Scarpa mette in piedi una strategia di raccomandazioni con Cicchitto, con Quagliarello perché, gli dice Lavitola, «io l´unico lavoro che ti posso fare è con il capo».
E millanta (millanta!) colloqui con il segretario di Stato vaticano: «Ieri sera mi ha telefonato Bertone». Esibisce con la geografia del potere italiano la stessa confidenza che aveva Charlie Chaplin con la palla del mondo che prendeva a calci e a testate. Annunzia per esempio che sta per entrare nel governo: «Ho chiesto le deleghe di Gianni Letta». Con Nicola Cosentino parla invece da malandrino, da bracconiere di Stato appunto, da killer di animali morti: «Che rapporti hai con Milanese?». E quello: «Buoni». «E invece ti vuole inculare». Fa il duro della banda: «Incazzato, ti voglio incazzato». E si mostra armato di male intenzioni: «Utilizza immediatamente le “cose” che ti ho dato ieri«. Vuole impartire una lezione a un giornale napoletano che «ha fatto una porcata», è “Il Roma” di Italo Bocchino e la punizione deve essere esemplare: «Vediamoci, ti darò delle “cose” che ti piacciono». E definisce «allarme rosso» la volontà di Tremonti di non versare i 90 milioni per l´editoria, vuole lanciare «uno sciopero bianco» perché, nel suo slang di rapace, incassare è «andare a torta».
La politica è questo: «Andare a torta», che è la spartizione, il bengodi dell´affare, la cuccagna. E anche al direttore di Avvenire spiega che l´editoria rischia di «andare a torta con 90 milioni di euro in meno». Poi gli dice perentorio: «Prenda appunti». E quello trova carte e penna e prende appunti. E traffica con il generale Paolo Poletti «per l´Albania», e per «quella cosa delicatissima», e «io debbo vedere a quello lì prima di giovedì» e «qui ci sta da fare bingo, ma un bingo biblico». Ce li ha tutti in tasca, elabora strategie e «spalmate di debito», e «Lui mi ha chiamato, è attento», e «ho detto tutto al Capo». È come una friggitoria che lavora tutto con lo stesso olio: l´olio di Berlusconi.
La storia e la cronaca d´Italia sono piene di millantatori e di truffatori. E però qui l´anomalia, non è Lavitola, non è l´imbroglione ma sono gli imbrogliati. Com´è possibile che il deputato questore della Camera, l´onorevole Colucci, seriamente gli dica: «Con le tue competenze, devi farti nominare commissario all´Aquila… diventerai il padrone dell´Abruzzo»? E qui Lavitola è esilarante, dice di «avere pudore» a chiedere per sé. Lui è disinteressato, lo fa per servire il paese, per la raffinatezza della scienza politica e per un po´ resiste ai complimenti: «Con le tue capacità all´Aquila arriverai ai sette cieli». Poi cede: «L´aiuto di Fabrizio (Cicchitto) può servire?». Capita spessissimo in queste intercettazioni che ad ogni nome (esclusi i presenti) arrivi un improperio o addirittura, come in questo caso, una bestemmia. Per esempio Zaia è «stronzo», Galan «uno stronzo che ti vuole inculare», Matteoli è «testa di cazzo»….
Ed è talmente abituato alle patacche che la sua improntitudine e la sua sfacciataggine sono così naturali da mettere in imbarazzo quelli della Maserati, li frastorna di imbonimenti, vuole restituire un´auto che non gli piace più: «A me servirebbe una quattro porte executive o insomma una cosa adeguata». È il protagonista di un mondo surreale, un sovramondo che fa di lui un titano della truffa, sempre perentorio e avvolgente, è un determinato che determina, dice di sognare «missioni impossibili», per lui i servizi segreti sono «penne che sparano», e «arruolami» dice a Poletti come un ardito, vago fanatico con il tono della tetra goliardia.
Solo con le segretarie torna cauto e circospetto, capisce che il terreno è delicato, che lì non esiste più il sovramondo. A prima vista con Marinella il suo ruolo in commedia diventa quello classico del ruffiano zuccheroso, dell´incantatore di sottoposti, uscieri e sacrestani: «Hai ragione, ma vedi se puoi farlo entrare senza farlo vedere», «ti prego», «per favore», «poi ti spiego». E però le segretarie custodiscono e amministrano i segreti del padrone e dunque apprezzano i valori e le gerarchie reali. E più sono sporche le verità del padrone e più loro sono costrette a subire Lavitola, a farsi complici dei suoi trucchi avvilenti: «Senza fare casini, senza disturbare Lui più di tanto, se tu ti facessi autorizzare a mandare solo la copia di quell´emendamento a Schifani con due righe, scrivendo “vedi se si può rendere ammissibile”…».
Insomma, qui non c´è solo l´applicazione concreta del vecchio proverbio «chi rispetta il cane, rispetta il padrone». E per capirlo bisogna sentire il tono con il quale lo trattano. È il fastidio di Perpetua che asseconda in Lavitola i vizi del proprio signore. Davvero la voce di Marinella, e anche quella di Nadia, la segretaria di Frattini, avrebbero affascinato Alessandro Manzoni: «Valter, per piacere», «lasciami vivere», «togli il fiato». Condividono infatti con Lavitola il ruolo di sottoposti e vigilano sugli stessi segreti, ma per le segretarie sono la dimensione intima del padrone, per Lavitola sono invece la sua dimensione “criminale”. Marinella gestisce con discrezione assoluta le magagne del suo curato, le considera angoli oscuri della sua anima. Lavitola invece le sfrutta e le alimenta come lucrosissime miserie.
E si capisce che quelle miserie sono la sua forza politica, anche quando parla con Berlusconi. E con Frattini, Bonaiuti e Bertolaso. Sono tutti insofferenti. Sbuffano ma lo favoriscono e lo accontentano perche sanno che ha in pugno Berlusconi, e sospettano che ormai tra il capo e Lavitola a comandare sia Lavitola. Persino Masi, infilandosi nella solita scorciatoia del turpiloquio, intossicato di coprolalia, tra mille “cazzo” e “merda” e “ti si incula di pezza” pronunziati ad ogni scossa, lo tratta con disprezzo «che cazzo stai a di´», «questa che dici è una sola», e però alla fine deve dargli retta, promette, lo insulta e subito lo rabbonisce chiamandolo con il vezzeggiativo «Valterino». Tutti sanno che Berlusconi ha fatto di Lavitola il suo Machiavelli, che gli permette di giochicchiare con lo Stato, che lo rappresenta e che lo domina, Lavitola è il suo cacciatore, è per Berlusconi che si spende nella caccia grossa sino a trasformare in preda il suo mandante, il suo signore. Mai Hegel avrebbe immaginato che la sua dialettica servo-padrone sarebbe stata un giorno degradata in una così truce cialtroneria di Stato.
La Repubblica 19.10.11