Gli indignados hanno tutte le ragioni di protestare contro la tirannia ideologica che i mercati finanziari stanno esercitando sui governi di tutto il mondo, specialmente europei. Infatti l’auspicata crescita economica non si attiverà se non verrà scalfita l’ortodossia monetarista e neoliberista dei governi europei di centrodestra che ha guidato le politiche draconiane di austerità adottate negli ultimi mesi dalla gran parte dei paesi dell’Europa (fra cui l’Italia di Berlusconi, distintasi per caos, improvvisazione, assenza di strategia). Bisogna valutare attentamente le conseguenze di tutto ciò, respingendo un’angusta visione del riformismo come tardo blairismo, per capire perché oggi essere autenticamente europeisti significa contrastare le posizioni macroeconomiche e microeconomiche restrittive dei governi europei di centrodestra, i quali rischiano proprio di distruggere l’euro e l’Europa stessa, e viceversa assumere una forte iniziativa riformatrice di tutte le sue forze socialiste e progressiste. Gli attuali pericoli di recessione, con lo spostamento dell’epicentro della crisi dagli Usa all’Europa e l’esplosione della questione dei debiti sovrani (frutto avvelenato, non bisogna dimenticarlo, della trasformazione di un immenso debito privato in immenso debito pubblico), sono veicolati dalla spirale perversa in cui i paesi europei ora si trovano. La spirale per cui i problemi del debito e del deficit spingono a politiche restrittive di contrazione del Pil che, a loro volta – a causa soprattutto del peggioramento delle aspettative, della contrazione dei consumi e della riduzione delle entrate –, aggravano le difficoltà della finanza pubblica, ragion per cui si è indotti a ulteriori manovre recessive, e così via in un avvitamento cumulativo a catena. Non si tratta di misconoscere l’importanza degli equilibri di bilancio, al cui richiamo è ispirata la lettera di Trichet e Draghi. Si tratta di traguardarli nella nuova asperrima situazione, e a questo, invece, la lettera suddetta non fornisce, e non poteva, risposta. Nel circolo vizioso la questione del lavoro (della disoccupazione, dell’incremento dei tassi di inattività, della struttura dell’occupazione sempre meno in grado di fare spazio ai giovani) emerge come cruciale, rendendola tutt’uno con la questione dello sviluppo: per rompere la spirale recessiva in direzione dello sviluppo bisogna generare lavoro, al tempo stesso non sarà uno sviluppo sostenibile quello non in grado di dare vita a una nuova fase di piena e buona occupazione, perché sul lavoro si gioca il futuro del capitalismo come progetto di civilizzazione. È questo che vogliono dire gli indignados di tutto il mondo, il movimento “Occupy Wall Street”, quanti chiedono che la finanza e l’economia reale siano riformate in modo più incisivo di quel che si è fatto fin qui, intaccando, per esempio, l’insopportabile opulenza dei manager finanziari e dei banchieri. C’è bisogno di una drastica discontinuità per porre il lavoro in cima all’agenda economica. Infatti, gli utili finanziari e i profitti rimangono alti e le classiche soluzioni ideate negli anni ’80 – tagli alle tasse, precarizzazione dei mercati del lavoro e bassi salari, deregulation – oggi non funzionano e in ogni caso beneficiano di più la finanza e il business che non l’occupazione. Inoltre, quando la domanda aggregata cede e i consumi flettono, anche la liquidità creata da politiche monetarie accomodanti non prende la via degli investimenti che, infatti, stanno drammaticamente crollando. Al tempo stesso i limiti alla crescita appaiono sempre di più come vincoli strutturali (si pensi agli eccessi di capacità produttiva in molti settori, come l’auto), il che configura la necessità di affrontare anche rilevanti squilibri di offerta, se si vuole muovere verso un nuovo modello di sviluppo basato sul lavoro, i consumi collettivi, le infrastrutture, i beni pubblici e comuni. In sintesi, suonano estremamente attuali i moniti che il keynesiano Minsky lanciava già nel 1975 per combattere la strutturale instabilità del capitalismo: è necessario interrogarsi su una nuova fase di “socializzazione” dell’investimento, “socializzazione” della Banca, “socializzazione” dell’occupazione. Tutto ciò reclama un rinnovamento radicale tanto del pensiero quanto delle politiche. Un esempio ne sarebbe un Piano per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne (finanziato con una parte dei proventi di una patrimoniale) che veda anche l’azione di agenzie pubbliche, secondo una innovativa riproposizione del modello del New Deal di Roosvelt.
L’Unità 16.10.11