Quando a Roma nel 2008 infuriava la rivolta contro la chiusura dell’ospedale San Giacomo, dall’archivio di Stato di Sant’Ivo alla Sapienza saltò fuori il testamento del cardinale Salviati che nel Cinquecento aveva donato l’ospedale a Roma con la clausola che fosse destinato a luogo di cura, altrimenti, dettava il cardinale, l’immobile doveva tornare agli eredi. Fu una brutta botta per chi avrebbe voluto trasformare in hotel di lusso quel prezioso isolato nel centro di Roma. Forse per questo gli archivi non stanno simpatici ai potenti e ai prepotenti: perché nella pancia di quei luoghi spesso negletti e polverosi si nasconde la fonte della difesa dei diritti. Claudio Persio è un funzionariodell’università dell’Aquila e, dopo la scossa devastante del 6 aprile 2009 pensò subito: «La vita delle persone è nelle carte». Da allora ha passato le sue giornate nella «Cambogia sismica» del rettorato per recuperare i documenti indispensabili alla ricostruzione delle carriere di impiegati e professori. Gli archivi sono la memoria della storia collettiva di un Paese. Questo dovrebbe essere una ragione sufficiente perché lo Stato ne assuma la cura. Ma, in tempi di crisi, quando i cittadini sono allarmati per i «tagli lineari» e i ministri pensano che «la cultura non si mangia », si dovrebbe far mente locale sulla funzione degli archivi che incide sulle vite individuali, sul diritto a una pensione o ad avere giustizia. L’Anai, l’associazione archivistica nazionale, ha preso in prestito un titolo de l’Unità del 14 luglio, «La dissolvenza degli archivisti», per dare vita ad iniziative in tutta Italia, a Milano, Bologna, Napoli (oggi a Palazzo Marigliano), Roma (oggi alle 11 a Sant’Ivo). L’allarme è generato dal fatto che negli archivi pubblici non si assume più, non c’è il passaggio di competenze indispensabile in un mestiere delicato, in cui spesso, anche per la cronica mancanza di spazio, c’è solo una persona a sapere dove mettere le mani. «L’ultimo chiuda la porta» è stato il titolo del convegno milanese, condotto da Benedetta Tobagi, al quale hanno partecipato magistrati, a cominciaredaEdoardo Bruti Liberati, storici e ricercatori. Anche
le risorse sono ridotte al lumicino, a Bologna, dice la direttrice dell’Archivio di Stato Elisabetta
Arioti «Siamo passati da 400 mila euro nel 2007 a 100mila del 2011» E il giudice Claudio Castelli, a Milano: «Avanti così e siamo alla paralisi». Gli archivi dei Tribunali sono uno strumento di lavoro indispensabile per i processi e una miniera d’oro per storici e giornalisti. Benedetta Tobagi ha passato centinaia di ore nell’archivio del Tribunale di Milano per ricostruire la storia di suo padre. Ci sono mitici cancellieri, come Paolo Musio a Roma e Umberto Valloreja aMilano, maghi e angeli custodi delle carte dei grandi processi italiani. Ma anche i cancellieri sono una specie in via di estinzione. Nel documento preparatorio l’Anai fa l’esempio delle guerre in Bosnia, dove la distruzione degli archivi ha reso incerto i titoli di proprietàm della popolazione musulmana. Ma aggiunge anche: «Senza gli archivi non si sarebbero potuti aprire i processi di risarcimento per le vittime dell’amianto. Senza i dati di studi e analisi degli archivi scientifici i medici non possono studiare le malattie. Senza la cartografia antica non potremmo prevenire alluvioni e frane o valutare il rischio sismico. Senza gli archivi è impossibile venire a conoscenza dei soprusi delle dittature». Non si può, dice Umberto Valloreja, «fare breccia nel muro del silenzio». Gli archivi pubblici e privati «sono
tutti importanti», dice Monica Calzolari, rappresentante Cgil a Sant’Ivo a Roma. E ricorda come «nella stagione di tangentopoli, per lo stato penoso degli archivi molti accusati non riuscivano a imbastire la propria difesa». Ma è vero anche che: «Lo Stato sta perdendo una marea di soldi perché i numeri dei conti bancari sequestrati sono sepolti in fascicoli processuali non archiviati».
Problemi che saranno risolti dalla «smaterializzazione», parola che fa battere il cuore a chi è nel business informatico? Il software non aiuta se non c’è la competenza di chi conosce come si archivia o che conserva memoria degli strumenti di lettura, in rapida obsolescenza per la rivoluzione tecnologica. Al ministero degli Affari esteri, per esempio, il più digitalizzato di tutti, si scartano i protocolli della corrispondenza. Non si saprà mai se un documento è entrato o uscito dal ministero.
L’Unità 15.10.11