Fa quasi tenerezza Marco Reguzzoni quando definisce «enfatizzazioni giornalistiche» i resoconti sulla protesta della base leghista di Varese. Per essere più convincente, Reguzzoni aggiunge che «tra l’altro la stampa non era nemmeno presente». È un’aggiunta infelice che trasforma la smentita in una conferma. Certo che i giornalisti non c’erano: ma non c’erano perché i capataz della Lega non li avevano fatti entrare. E per quale ragione non li avevano fatti entrare, se non per il timore che vedessero l’invedibile, e cioè Bossi contestato a casa sua?
«Mi creda – ci confida un esponente leghista che domenica era in sala -, quello che hanno pubblicato i giornali non è enfatizzato, al contrario è riduttivo». Amministratori locali, militanti e semplici iscritti hanno urlato il loro dissenso contro un congresso provinciale che – alla faccia dell’autodeterminazione dei popoli – è sembrato degno di un Politburo. Bossi ne è rimasto sconvolto. Anche perché è stata una protesta spontanea, non organizzata: anzi l’ordine dei colonnelli dissidenti era quello di «non fare casino».
E così, la giornata di domenica scorsa potrebbe anche diventare storica. Primo, perché mai Bossi era stato contestato a Varese, cioè nella culla della Lega. Secondo perché la protesta, nonostante il niet imposto all’ingresso dei giornalisti, è diventata pubblica. Molti dissenzienti sono usciti allo scoperto, e così questa volta sarà più difficile parlare delle «solite balle della stampa». La spaccatura è ormai un fatto conclamato.
Bossi, nonostante la retorica anch’essa paragonabile a certi bollettini medici da Unione Sovietica, è un uomo stanco e malato. Non è neppure sempre lucido: è sgradevole dirlo, ma chiunque l’abbia seguito negli ultimi tempi sa di che cosa stiamo parlando. In queste condizioni, è accudito da una ristretta cerchia di persone: la moglie Manuela Marrone, Rosy Mauro, Reguzzoni, Belsito, Bricolo, ossia il cosiddetto «cerchio magico». Secondo molti leghisti, da costoro Bossi non è accudito ma commissariato. E questo è già un primo motivo di malcontento: l’avere un capo che è anche un sottoposto.
Ma Bossi è in difficoltà anche per altri motivi. Un secondo motivo è che la Lega si è presentata sulla scena politica come un movimento rivoluzionario, e non si possono lasciare a metà le rivoluzioni. Il peraltro impalpabile federalismo portato a casa in vent’anni non ha nulla a che fare con le promesse delle origini. Un terzo motivo di disagio è contingente: Bossi non vuole mollare Berlusconi a nessun costo, e molti temono che il matrimonio, oltre che indissolubile, si riveli mortale per il partito.
Roberto Maroni è il leader di tutti questi scontenti. Se fosse per lui, mollerebbe subito il governo e ripresenterebbe una Lega barricadiera e solitaria come ai bei tempi. Così nasce il cosiddetto scontro fra «maroniani» e «bossiani» (Roberto Calderoli invece non è né un maroniano, né un membro del «cerchio magico»: secondo alcuni sta giocando una partita tutta sua, fa il mediatore fra le due anime e spera di trarre beneficio tra i due litiganti).
Ma attenzione: sbaglia, e di grosso, chi pensa o spera che Maroni possa lavorare per prendere il posto di Bossi. Non lo farà mai. Tra i due c’è una amicizia troppo vecchia e profonda. Un mese fa, durante un incontro nel quale non sono mancati bruschi scambi di opinioni, a un certo punto Bossi è scoppiato a piangere e i due si sono abbracciati.
Perché, allora, Bossi e Maroni non riescono a raggiungere un’intesa politica? Il Senatùr si è molto arrabbiato quando «Panorama» ha sottolineato il ruolo decisivo di sua moglie. Ma nella Lega è questo che dicono: che il problema è la moglie. Bossi, al di là di quello che si possa pensare di lui, non è comunque uomo che si sia arricchito con la politica: e la moglie – si sussurra nella Lega – gli ricorda che, dopo aver dato tutta la vita al partito, adesso deve pensare ai figli. Per questo qualunque colonnello cresca nei consensi interni diventa un pericolo: nella Lega del futuro dopo Bossi ci dev’essere un altro Bossi, che sia Renzo la Trota o Roberto Libertà.
Maroni tutte queste cose le sa. E non vuol far la parte di chi accoltella nella schiena il vecchio amico per prendere il suo posto. Per amore di Bossi, domenica ha ritirato il suo candidato al congresso di Varese. Il problema, però, è che ormai molti «maroniani» sono partiti, e sarà difficile fermarli.
La Stampa 11.10.11