«Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune», scrive il Manzoni ne I promessi sposi, spiegando come non tutti abboccassero all’idea che la peste fosse propagata dagli untori. Ma ci si può ribellare all’opinione comune, se l’antico adagio dice vox populi, vox Dei?
Non solo si può: si deve. Sia per motivi etici, sia per gestire meglio le situazioni di crisi. E lo dimostra un libro del demografo Gianpiero Dalla Zuanna e dell’economista Guglielmo Weber. Il titolo, che gioca un modo di dire, dice tutto: Cose da non credere. Il senso comune alla prova dei numeri. Qui è la differenza: «il senso comune si nutre di miti, il buon senso di fatti».
È vero o no, ad esempio, che «i nostri figli fanno sesso già alle medie»? Falso: «Può accadere che chi raccoglie dati su campioni italiani di sedicenni (…) proclami urbi et orbi che l’età media del primo rapporto sessuale dei giovani si è ormai abbassata a 14 anni. Peccato che il calcolo venga fatto solo sul gruppo dei sedicenni che hanno già avuto rapporti sessuali, ignorando il 70-80% che ancora non li ha avuti». Infatti «se lo stesso gruppo fosse stato intervistato attorno al diciottesimo compleanno, l’età media sarebbe stata di sedici anni, mentre se l’intervista fosse stata fatta al venticinquesimo compleanno, l’età media sarebbe risultata di 18». Non ci sono più le famiglie di una volta? Falso: a differenza di quanto accade nei paesi nordici e anglosassoni, «il 70% delle persone con più di trent’anni, con la madre ancora in vita, risiede a meno di 10 km da lei. In Francia e in Germania, la stessa proporzione non supera il 45%». Di più: «Negli anni Novanta, la percentuale di nuovi coniugi che vanno ad abitare nello stesso comune di almeno un genitore è altissima (86%), praticamente la stessa dei matrimoni celebrati negli anni Trenta».
Gli italiani fanno meno figli perché sono egoisti? Falso: «L’egoismo c’entra poco, anzi è vero l’opposto. In Italia nascono pochi figli perché si vuole troppo bene ai bambini. Le coppie sono molto titubanti rispetto alla prospettiva del secondo, del terzo o del quarto figlio, perché vorrebbero per loro un futuro di alto livello, e sentono di essere in questo poco aiutate, sia dallo Stato, sia dal mercato». Le esperienze degli altri paesi (dove fanno meno «Family day» ma agiscono di più) dimostrano che sono le politiche familiari a fare la differenza. «Non a caso oggi nei 10 paesi più prosperi del mondo nascono in media più di 1,8 figli per donna». Quasi un terzo più che in Italia. Dove, peraltro, è falsa anche l’idea della «società del figlio unico»: i bambini senza fratelli sono il 13%. Un sesto.
La «bomba demografica che ci distruggerà»? Era già un incubo mezzo millennio fa per Niccolò Machiavelli: «E che queste inondazioni, pesti e fami venghino, non credo sia da dubitarne. Quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivere, né possono andare altrove per essere occupati e pieni tutti i luoghi, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de’ tre modi; acciocché gli uomini essendo divenuti pochi e battuti, vivano più comodamente, e diventino migliori».
I numeri dicono invece che occorre andarci piano, con le previsioni apocalittiche. Per cominciare, con l’idea di Thomas Malthus che crescano più in fretta le bocche da sfamare che il cibo. Un esempio? «In Italia, i quintali di granoturco prodotti per ettaro passano da 9 nel 1861, a 12 nel 1911, a 25 nel 1961, addirittura a cento nel 2011, più che decuplicati nel secolo e mezzo di unità nazionale». Di più: «Secondo i dati della Fao e delle Nazioni Unite, nel cinquantennio 1961-2011 il cibo prodotto nel mondo è più che triplicato, mentre la popolazione è “solo raddoppiata”. Di conseguenza, ogni uomo di oggi ha a disposizione — in media — quasi il 50% in più di cibo rispetto a cinquant’anni fa».
Il guaio sta nel paradosso di Trilussa: «Seconno le statistiche d’adesso / risurta che te tocca un pollo all’anno: / e se nun entra nelle spese tue / t’entra ne la statistica lo stesso / perché c’è un antro che ne magna due». Anzi, dice un ritocco a Trilussa: se un povero mangia un pollo, o è malato il povero o è malato il pollo. In ogni caso, l’idea che la demografia dei paesi poveri sia destinata a sommergere il pianeta va preso con le pinze. Sia chiaro: la crescita della popolazione va tenuta sotto controllo. Ma dai numeri «viene contraddetta un’idea cardine del modello di Malthus, ossia che il miglioramento economico spinga le coppie ad avere più figli».
Oggi la popolazione del pianeta sta mediamente meglio rispetto a trent’anni fa. Si pensi all’India, che favorendo «la democrazia, l’istruzione e l’agricoltura, è passata da 390 milioni di abitanti nel 1947 al miliardo attuale» e dopo essere stata il paese delle carestie, «oggi esporta cereali in Medio Oriente e Africa» ed è destinata alla più impetuosa crescita economica dei prossimi decenni. O alla Cina, passata dalla fame alla Ferrari Testarossa. Eppure, «fra il 1980 e il 2010 il numero medio di figli per donna nei paesi in via di sviluppo è passato da 5,1 a 2,9. La rapidità e la forza di questo declino fa ancora più impressione se si considerano alcuni grandi Paesi islamici, che nell’immaginario collettivo dell’Occidente vengono visti come arretrati, sia dal punto di vista culturale che da quello economico e demografico. Sempre nel trentennio 1980-2010, il numero medio di figli per donna è passato da 4,5 a 2,1 in Indonesia, da 6,3 a 2,3 in Bangladesh, da 6,6 a 1,8 in Iran, da 5,6 a 2,8 in Egitto, da 5,7 a 2,3 in Marocco. Nel giro di appena trent’anni, seicento milioni di persone — gli abitanti dei cinque paesi appena citati, popolosi come l’Europa senza la Russia — sono usciti dal mondo di Malthus, entrando a vele spiegate nella demografia contemporanea».
Meno male, dirà qualcuno, che li abbiamo «fermati». Falso: «anche nel 2009 e 2010, anni di crisi economica, ogni giorno più di 1000 stranieri si sono iscritti all’anagrafe dei comuni italiani, e ogni anno sono nati 100.000 bambini con almeno un genitore straniero, su 570.000 nascite totali». Totale: 800.000. In due anni. Senza «rubare il lavoro» a nessuno: facendo solo lavori, in particolare nel centro-nord, «che gli italiani possono permettersi di non fare».
C’è chi paventa l’idea che «loro» ci cambieranno? Dalla Zuanna e Weber spiegano che semmai succede il contrario: siamo noi a cambiare loro. A partire dal tasso di fertilità, che tra le donne immigrate precipita presto ai nostri livelli: «Pochi anni dopo il loro arrivo in Italia, gli stranieri condividono gran parte degli atteggiamenti e degli obiettivi di vita dei loro colleghi italiani. Questa assimilazione (nel senso di “diventare simili”) è particolarmente lampante fra i bambini e gli adolescenti. Le aspirazioni e i sogni dei giovani stranieri che vivono in Italia da almeno quattro o cinque anni sono praticamente indistinguibili rispetto a quelli dei loro coetanei italiani». Certo, come ai tempi della peste manzoniana, a qualcuno fa comodo non vedere, non sentire, non sapere…
Il Corriere della Sera 11.10.11