Se vogliamo dirla tutta, non è nemmeno la prima volta che i corridoi del settimo piano di Viale Mazzini, a Roma, vengono attraversati da un simile brivido. Gli alti papaveri della tivù di Stato hanno provato la sgradevole sensazione di potersi trovare con le casse vuote già l’anno scorso, quando la prima rata del canone, che il Tesoro trasferisce alla Rai in quattro tranche trimestrali, è stata versata con un ritardo inusuale. Ma stavolta se la sono vista ancora più brutta. La rata autunnale non arrivava: 450 milioni di euro. Soldi necessari a rimpinguare i conti correnti ormai al lumicino e a riempire le buste paga di settembre. Al Tesoro però nessuno si commuoveva. La spiegazione? Non c’erano quattrini. La faccenda, che rischiava di diventare davvero seria, è stata risolta dopo spinose trattative, con giudizio salomonico. I 450 milioni verranno dilazionati in tre comode ratine da 150.
Il che consentirà di pagare agevolmente gli stipendi: ogni mese se ne vanno fra i 55 e i 60 milioni, senza considerare gli oneri sociali e gli accantonamenti per le liquidazioni. Ma lascerà a bocca asciutta per un po’ un nutrito numero di fornitori. E non è un dettaglio, considerando che la Rai ha debiti commerciali per qualcosa come 805 milioni di euro, stando all’ultimo bilancio approvato nel giugno scorso. Nel quale era già tutto scritto.
Basta leggere bene: «Per quanto concerne il rischio di liquidità si evidenzia che il gruppo ha con il sistema bancario linee di affidamento a breve termine per un importo di circa 475 milioni di euro. È inoltre attivo un finanziamento di 220 milioni di euro nella tipologia stand by, con scadenza nel 2012, con un gruppo di banche. Il complesso degli affidamenti è sufficiente a coprire i periodi di massimo scoperto, seppure la procedura di liquidazione dei canoni da parte del ministero dell’Economia attraverso quattro rate posticipate possa generare tensioni nel caso di ritardi significativi». Traducendo: siccome i soldi del canone, che non vengono pagati direttamente alla Rai ma transitano attraverso il Fisco, arrivano poco per volta, ce li facciamo anticipare dalle banche. Ma se il ministero ritarda i trasferimenti (com’è accaduto), allora sono dolori.
A questo punto, però, è inevitabile farsi una domanda. Come ha fatto un’azienda che ancora nel 2005 non soltanto non aveva un euro di debiti con gli istituti di credito, e anzi disponeva di 102 milioni liquidi in banca, e che fino a due anni fa mostrava ancora un saldo finanziario netto attivo, a ritrovarsi invece ora con una posizione finanziaria netta negativa per ben 150 milioni, come risulta dai conti 2010? E a dover rincorrere le rate del canone con l’aiuto di affidamenti bancari per la cifra monstre di 695 milioni?
Già, come ha fatto? Gli amministratori si lamentano nell’ultimo bilancio che lo Stato non rispetta le sue stesse leggi, le quali stabiliscono che le attività di servizio pubblico devono essere integralmente coperte da risorse pubbliche. Secondo loro mancano all’appello, per il periodo 2005-2009, ben 1,3 miliardi di euro. Nello stesso bilancio si argomenta poi a proposito dell’elevato livello di evasione del canone, valutata in 500 milioni di euro. Vero è poi che la pubblicità ha subito una mazzata… Tuttavia, a parte la questione pubblicitaria, legata alla crisi, non si può dire che siano problemi nuovi: nel 2010, anzi, la Rai ha incassato ben 40 milioni in più di canoni. E ha recuperato 40 milioni di pubblicità. Anche se le cose non sono affatto migliorate.
Il precedente collegio sindacale presieduto da Domenico Tudini aveva ripetutamente segnalato i rischi ai quali si sarebbe andati incontro senza intervenire decisamente su altri punti critici, oltre all’evasione. Ma le segnalazioni sono evidentemente rimaste tali. Il fatto è che la tivù pubblica è fortemente sbilanciata, in modo strutturale, dal lato dei costi operativi. Con uno spreco di risorse interne semplicemente inaudito, al confronto con altre imprese dello stesso settore.
Il personale, per esempio. Nel 2010 la Rai ha pagato 13.295 stipendi, con una diminuzione di 57 unità, come risultato di 174 uscite di impiegati a tempo determinato, bilanciate da ben 117 assunzioni a tempo indeterminato. Il personale «in organico» è infatti ancora aumentato: da 11.387 a 11.402 unità. Più quindici: una sciocchezza, direte. In ogni caso il costo, ormai stabilmente sopra il miliardo l’anno, è salito ancora di qualche milioncino. E comunque alla Rai lavora circa il doppio della gente impiegata a Mediaset. Che ha anche un fatturato maggiore, pur senza considerare la consociata spagnola (Telecinco) e tenendo presente invece che l’azienda pubblica ha la radio, di cui il suo concorrente privato è sprovvisto. I giornalisti sono 2.019, nove in meno rispetto al 2009. Ma quelli assunti fissi sono 1.675, dodici in più.
Eppure, con tutto questo personale a disposizione, le produzioni sono incredibilmente affidate quasi tutte all’esterno. Nel 2010 soltanto il costo dei «servizi per acquisizione e produzioni programmi» da altre ditte è ammontato a 242,6 milioni. In calo di 25 milioni rispetto al 2009, lo sappiamo. Ma soltanto perché la linea aziendale è stata quella di ridurre tutti gli investimenti nella programmazione, tagliati del 6,1%: più di 33 milioni. In estate, come hanno notato autorevoli osservatori, la tivù pubblica è andata in letargo. Si sono imbottiti di repliche i palinsesti, saccheggiando un magazzino per fortuna ben fornito. Senza che il sonno, peraltro, arrestasse l’emorragia. Negli ultimi tre anni la Rai ha accumulato perdite per 167,1 milioni, con un crescendo rossiniano: 7,1 milioni nel 2008, 61,8 nel 2009, 98,2 nel 2010. Fin troppo facile, in tutto questo andazzo, riconoscere un solo vero responsabile. È la mano della politica, il reale gestore dell’azienda. Lorenza Lei, seduta sulla poltrona del direttore generale, ha promesso per quest’anno il pareggio di bilancio. Auguri.
Il Corriere della Sera 09.10.11