La rivoluzione promessa dal ministro Brunetta è finita nel nulla: al posto di efficienza e modernità sono arrivati il blocco di contratti e salari ma anche insulti e licenziamenti. E il settore pubblico oggi scende in piazza. Sono quelli che il ministro Renato Brunetta ha etichettato, senza distinzioni, come fannulloni. Sono quelli che molti immaginano solo come un esercito di burocrati intenti a percorrere i corridoi ministeriali. E invece sono anche insegnanti, bidelli, ricercatori, vigili del fuoco, doganieri, impiegati comunali, infermieri, poliziotti. Sono quelli che una volta chiamavano “i servitori dello Stato”. Perché se questa macchina spesso sgangherata va avanti, malgrado i conducenti siano come presi da uno stato di ubriachezza, è proprio per loro. Come tante rotelline negli innumerevoli ingranaggi. Oggi presi di mira più di altri dalle manovre governative: il blocco dei contratti e dei salari, i veri e propri licenziamenti che colpiscono unaf olla di precari sfruttati per anni, l’attacco ai diritti, i tagli ai comuni e quindi i tagli a tanti servizi pubblici e conseguente enorme incremento di fatica per le “rotelline” rimaste. Nonè però vero che gli ubriachi al comando siano guidati dalla teoria del “meno Stato più mercato”. Quella che mister Cameron in Inghilterra chiama Big Society in Italia sta andando a rotoli. Basta vedere le proteste che si levano dalle associazioni del terzo settore, la cosiddetta “Confindustria del sociale”, dalle associazioni del volontariato. Tutti vittime della “manovra” anti- crisi. Altro che sussidiarietà tra pubblico e no profit. Eppure questo governo, col suo agitato ministro Brunetta, era partito lancia in resta, proclamando progetti che avrebbero dovuto rivoltare come un calzino la macchina dello Stato introducendo efficienza e modernità. Non è successo nulla o quasi di tutto questo. Eppure i sindacati avevano cercato di esercitare un ruolo non solo rivendicativo ma anche attento a problemi di produttività ed efficienza. Erano stati loro (con l’aiuto di un giurista importante come Massimo D’Antona, fulminato dalle Br) a battersi per privatizzare i rapporti di lavoro nel settore pubblico. Ad avanzare protocolli in cui si parlava ad esempio di mobilità controllata, di coinvolgimento dei cittadini nell’organizzazione dei servizi. Il ministro non ha cercato la strada della collaborazione (la famigerata concertazione). Ha umiliato il suo popolo, insultandolo, ha bloccato non soli i contratti ma anche l’elezione delle rappresentanze sindacali, rinviando le liquidazioni di fine lavoro. Cercando addirittura di superare quei criteri di contrattazione cari a D’Antona e ripristinando un sistema basato su leggine e clientele. Così, ad esempio, mentre tutti si riempiono la bocca sulla necessità di portare la contrattazione sindacale nei luoghi di lavoro – lui ha fatto tagliare i fondi necessari alla pur prevista contrattazione decentrata. Lo ha aiutato la ministra Gelmini licenziando 120mila persone precarie. E il ministro Sacconi con quell’articolo 8 teso smantellare lo Statuto dei lavoratori e con misure che aumentano l’età pensionabile delle lavoratrici. Una guerra nelle scuole contro il “sapere” che dovrebbe essere assicurato a tutti come strumento di libertà, una guerra per umiliare il lavoro considerando inutili i “servitori dello Stato”. Ora, dopo lo sciopero generale di settembre, scendono in piazza con la Cgil, si ribellano (e alla loro testa nel corteo saranno i precari) e tornano ad avanzare proposte .Un movimento che porta alla manifestazione nazionale di tutti il 27 novembre. Un movimento che coinvolge anche la Uil (con il pubblico impiego in sciopero il 28 ottobre) e la Cisl che convoca gli stati generali per il 12 di questo mese. È inutile rievocare l’autunno caldo, questa è una stagione ben più drammatica. Sono in gioco le sorti del Paese e delle sue forze migliori, quelle del mondo del lavoro.
L’Unità 08.10.11
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“No ai licenziamenti sileziosi. La protesta del mondo precario”, di Mariagrazia Gerina
Il blocco del turn over e il taglio della spesa si abbattono sui lavoratori a tempo determinato: sono già 30 mila. Il corteo del Pubblico impiego che attraverserà Roma, oggi, lo apriranno loro. Perché: «L’etat c’est moi». Sono loro lo Stato. Come recita l’appello che hanno scritto in vista della manifestazione di oggi. Impiegati e medici. Ricercatori e infermieri. Impiegati a tempo determinato e assistenti sociali. Ispettori del lavoro, persino. Tutti precari. Precari pubblici. Un popolo di quasi quattrocentomila persone, se conti anche gli insegnanti precari, i collaboratori scolastici, le maestre d’asilo. Sono loro che mandano avanti un bel pezzo di quello Stato fatto di ospedali e di uffici, di asili e di pronto soccorso. Esono sempre loro la prima fila davanti alla crisi. Che il governo ha deciso di tagliare. Tanto non c’è neppure il disturbo di doverli licenziare. Dimezzare la spesa per i precari del pubblico impiego. Questa è l’indicazione di rotta. Prima ancora di cominciare a guardare in faccia la crisi, Tremonti aveva già deciso, decreto legge 88 del 2010, che lo Stato non poteva più permettersi di pagare tutti quei precari. La fotografia scattata nel 2009, l’ultima basata su dati ufficiali, ne coglie d’un colpo 94.936 che lavorano con contratti a tempo determinato o con contratti di formazione lavoro nel pubblico impiego, uno dei gruppi più numerosi sono i 33.184 dipendenti del servizio sanitario nazionale, medici, infermieri, impiegati. A loro, in quella fotografia, si aggiungono i 32.426 lavoratori interinali e Lsu, dipendenti di società che lavorano in appalto per la pubblica amministrazione. E poi ci sono i Co.co.co. La legge Biagi li ha cancellati, tasformandoli in contratti a progetto, ma nel pubblico ci sono e come. Nel 2009, almeno, ce ne erano 48.649. E ancora ci sono gli incarichi di studio, di ricerca, di consulenza: qui il conto non è sulle persone ma sui contratti, 67.670 stipulati nel corso del 2009. La stima è che, tolti i precari della scuola, i precari del pubblico impiego siano circa 240mila. La scuola di precari tra docenti e Ata ne conta altri 140mila. La somma fa: 380mila precari. «Siamo quelli che negli ultimi decenni hanno contribuito a tenere in piedi scuole, università, servizi pubblici. E siamo quelli che vogliono continuare a farlo», rivendicano loro. Lo Stato visto da via XXSettembre e da Palazzo Vidoni ha deciso di andare da tutt’altra parte. L’ultimo percorso di stabilizzazione all’interno del pubblico impiego è finito con l’anno 2008/2009. E ormai – spiega Michele Gentile, responsabile dei lavoratori pubblici della Cgil – l’obbiettivo prima ancora della stabilizzazione, è mantenere tutti in servizio. E non è che dall’altra parte si apra la strada ai concorsi. La linea dura decisa dal governo dice che il turn over è bloccato. E che solo 20 ogni 100 dei lavoratori che se ne vanno in pensione saranno sostituiti. Ma dall’altra parte, appunto, dice anche che è chiusa la strada ai precari. Perché bisogna dimezzare la spesa destinata a coprire i loro magri compensi. Dimezzare la spesa significa non lascia alternative. Significa che non ci sono più i soldi per pagare tutti. E che i precari che tra l’altro ora coprono i buchi lasciati scoperti dal mancato turn over verranno decimati. I licenziamenti silenziosi sono già iniziati. Si stima che siano circa 30mila i precari del pubblico impiego che non si sono visti rinnovare il contratto. Arrivederci, e neppure grazie. E lo stesso destino toccherà a breve ad altri 40mila. Una strage silenziosa. Che oggi farà sentire in piazza la sua voce. Ma la questione non riguarda solo i lavoratori. Se è vero che loro sono lo Stato, che fine fa quello Stato fatto di scuole, pronto soccorso, asili, ospedali? La loro “dipartita” dal pubblico impiego significa che servizi essenziali potrebbero non essere più garantiti. I pronto soccorso, per esempio. Oppure la Croce Rossa. E davanti ci sono altri 7 miliardi di tagli che gravano sui ministeri. La linea del Piave è che nessun taglio più ricada sui precari. Ma quello è solo un argine da porre davanti a uno Stato che ha detto: «alla crisi economica si risponde con meno pubblico». «Noi – rispondono i precari – diciamo altro: che ci vuole più pubblico, più welfare, più scuola, più università ».Un Paese che non lasci sole le persone. E che non sprechi i suoi talenti. Programmazione di assunzioni nei settori strategici «a partire da coloro che hanno già superato le prove d’accesso, vincendo i concorsi o risultando idonei », stabilizzazione, basta discriminazioni. Questo rivendicano i precari. È chiedere troppo per chi tutti i giorni regge lo Stato sulle proprie spalle?
L’Unità 08.10.11
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“Meno salario meno contrattazione meno sindacato”, di Felicia Masocco
La riforma Brunetta ha smantellato la Bassanini e restituito il primato alla legge togliendolo agli accordi tra le parti. Il modo più semplice per spiegare che cos’è il blocco della contrattazione è parlare di stipendi. Quelli dei lavoratori pubblici sono congelati: fino a tutto il 2012, aveva stabilito la manovra economica del 2010. Quella del luglio scorso ha allungato i termini: il blocco durerà tutto il 2014. Niente aumenti, nessuno scatto di anzianità, indennità cancellate, carriere vietate. Mentre l’inflazione rialza prepotentemente il capo (le stime di settembre la danno in aumento del 3,1% in un anno) le buste paga di un’insegnante, di un infermiere, di un vigile del fuoco, di un impiegato, per un totale di 3milioni e mezzo di persone, ancora per 38 mesi resteranno inchiodate ai valori del 2010. È stato il ministro Giulio Tremonti, manovra dopo manovra, a decidere che i lavoratori pubblici dovessero tirare la cinghia. Le sue scelte sono facilmente monetizzabili: tra il 2010 e il 2014 un lavoratore ministeriale perderà in media 10.604 euro, quello della sanità 11.343, se di un ente pubblico non economico ci rimetterà in media 11.343 euro. Ancora: reddito alleggerito di 7.930 euro per gli insegnanti, di 13.941 per i ricercatori, di 7.546 euro per i ricercatori universitari. Sono decurtazioni in termini nominali: in termini reali la perdita sarà maggiore a causa dell’aumento del costo della vita. Ma se questo si vede chiaramente, meno intellegibili sono gli effetti delle decisioni del ministro Renato Brunetta e della sua “riforma” annunciata dal grido di «fannulloni» e accompagnata da rumorose installazioni di tornelli. Ha davvero portato maggiore efficienza? «In realtà, norma dopo norma, la pubblica amministrazione è tornata indietro di decenni, agli anni Cinquanta, Sessanta e non mi pare che allora fosse esempio di modernità », risponde Mario Ricciardi, docente di Relazioni industriali all’Università di Bologna e per dieci anni (fino al 2009) membro del Comitato direttivo dell’Aran, l’agenzia per la contrattazione pubblica. «Per capire quanto è successo occorre fare un passo indietro e tornare alla legge 165 del 2001, la cosiddetta “Bassanini”, una riforma – questa sì – che ha molto innovato. Tra i principi c’era la convergenza tra lavoro pubblico e lavoro privato, portando anche nel pubblico la supremazia della fonte contrattuale su quella legislativa che fino a quel momento aveva regolato il settore. La Bassanini aveva l’idea di fondo che con la contrattazione collettiva si poteva riformare l’amministrazione pubblica con un consenso ampio delle forze sociali e dei lavoratori». Il ministro Brunetta ha cambiato radicalmente prospettiva. Ha depotenziato la contrattazione, restituendo il primato alla legge, dunque alla politica e alle sue mille discrezionalità. «Ha introdotto elementi che definirei autoritari, unilaterali. Più legge e meno contrattazione, questo il suo paradigma», continua Ricciardi. Vantaggi? Benefici per il cittadino-utente? Finora non se ne sono visti. «In compenso c’è la Civit, una Commissione di 5 esperti (2 già dimessi) che ha il compito di valutare tutto il personale, di ogni amministrazione, inmodocentralizzato e uniforme, di decidere premi e sanzioni. Tuttoda Roma, è una follia. L’impostazione del ministro è ideologica: con meno contrattazione c’è meno sindacato e più efficienza ». Le nuove norme stabiliscono, ad esempio, che trascorso un certo termine senza il raggiungimento di un’intesa sul contratto nazionale, il datore di lavoro pubblico può procedere unilateralmente agli aumenti. Nella contrattazione integrativa si distingue invece tra materie organizzative e salario e così su annulla anche la logica dello scambio che spesso è a base della contrattazione. «L’obiettivo è il sindacato, inteso nel suo insieme», afferma Ricciardi. E infatti la Cgil chiama in causa anche l’articolo 39 della Costituzione. «È l’articolo che disciplina la libertà di associarsi in sindacato e di svolgere attività sindacali, cioè attività di autotutela – conclude il docente – Se si blocca la contrattazione come hanno fatto in parte la riforma Brunetta e in parte le ultime manovre economiche di Tremonti, il sindacato perde ragione di essere».
L’Unità 08.10.11