Quanti sono, esattamente, i cittadini italiani che vengono sottoposti a intercettazioni telefoniche, su ordine della magistratura per esigenze investigative? Gli ultimi dati del 2009 dicono 120 mila utenze per circa 80 mila persone, cioè lo 0,2% della popolazione. E quanti sono gli intercettati che vengono danneggiati dalla diffusione delle registrazioni sui giornali o sugli altri media? Qui non esistono cifre ufficiali, ma si può ragionevolmente calcolare che siano un numero davvero minimo.
Ma, allora, di che cosa stiamo parlando? Di quali violazioni della privacy o dei diritti fondamentali? E perché il governo e la sua maggioranza posticcia, proprio nel pieno di una drammatica emergenza economica che minaccia tutti, vogliono approvare al più presto la legge-bavaglio sulle intercettazioni che riguarda in realtà pochi o pochissimi cittadini? Qual è la ragione di tutta questa urgenza?
La risposta è soltanto una: per impedire all´opinione pubblica di essere informata in modo tempestivo e completo sul malaffare, sulla corruzione, sui rapporti incestuosi tra politica ed economia. Tutto il resto non conta. O meglio, conta certamente che anche un solo cittadino possa subire una violazione della sua sfera privata, a causa della pubblicazione illegittima di intercettazioni telefoniche o ambientali. Ma non è questo il problema e non è questa la vera preoccupazione del potere.
Ha ragione Ilda Boccassini, procuratore aggiunto a capo del Dipartimento anti-mafia di Milano, a dire che: «Alcuni magistrati hanno fatto un cattivo uso delle intercettazioni». E anche ad aggiungere che “non vorremmo leggere sui giornali fatti che non riguardano le inchieste”. Chi scrive sostiene da sempre che ne abbiamo abusato tutti, giudici e giornalisti: in particolare quando si tratta di fatti penalmente irrilevanti e di terze persone incolpevoli o comunque estranee alle indagini.
Citando un garantista come Giuliano Pisapia, avvocato penalista e oggi sindaco di Milano, bisogna riconoscere che spesso le intercettazioni – da strumento fondamentale e irrinunciabile di ricerca della prova – si sono trasformate progressivamente nella prova stessa. E questo, fra l´altro, rischia di atrofizzare le funzioni e le capacità investigative degli inquirenti, deprimendo la loro autonomia professionale.
Ma tutto ciò ha poco a che fare con il disegno di legge in discussione alla Camera. Qui, per evitare che i cittadini vengano informati sulle malefatte del potere, si punta essenzialmente a mortificare la magistratura e a punire i giornalisti. Legare le mani ai pubblici ministeri. Mettere il bavaglio alla stampa, imporre il black-out sull´informazione, come denuncia apertamente la presidente della Commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, con le sue clamorose dimissioni da relatore del provvedimento. Il tentativo di reintrodurre in extremis il carcere – da 15 giorni a un anno – per i giornalisti che non rispettano il divieto di pubblicazione, ne è la riprova più chiara ed esplicita. Né può bastare l´opportuno ripensamento sull´obbligo di rettifica entro 48 ore, limitatamente ai blog e ai social network, per riequilibrare un testo autoritario e repressivo.
La verità – come scrive Giancarlo Armati, ex Procuratore generale della Repubblica di Perugia, in un articolo apparso recentemente su un settimanale – è che “la classe politica non gradisce intercettazioni”. E il motivo è semplice: “Non si vuole che siano turbati, scoperti e tantomeno pubblicati i rapporti, spesso oscuri, talora illeciti, fra la politica e gli affari”. Altrimenti, se l´esigenza fosse effettivamente quella di salvaguardare la privacy, le norme in vigore sarebbero più che sufficienti.
Basta ricordare due articoli del Codice di procedura penale. L´articolo 269, comma 2, prevede già che “gli interessati, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza”. L´articolo 329, comma 1, stabilisce che “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l´imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”. E non c´è motivo di introdurre per le intercettazioni, atti di indagine al pari degli altri, una disciplina diversa e più rigorosa.
Resta la necessità di definire che cos´è penalmente rilevante e che cosa non lo è. Ma la questione va risolta dal giudice di merito, caso per caso, in base al principio del libero convincimento. Anche al di là della rilevanza penale, comunque, “sussiste certamente un legittimo interesse pubblico – come rileva ancora Armati – a conoscere i comportamenti nella sfera pubblica e in quella privata di tutti coloro che ricoprono incarichi istituzionali”: per gli uomini politici e di governo, a differenza dei comuni mortali, “anche il privato è pubblico”.
Qui, insomma, non è tanto in discussione il diritto dei giornalisti di fare liberamente il proprio mestiere. Quanto piuttosto il diritto dei cittadini di essere informati correttamente, per poi valutare le azioni e i comportamenti dei politici, giudicare e votare di conseguenza. È una questione fondamentale di trasparenza e di democrazia.
(sabatorepubblica.it)
Sostiene che le notizie sono vitali come il cibo, e che nel mondo moderno senza notizie, meglio se ottenute in anticipo, non si può vivere. (da “Le passioni dell´anima” di Raffaele Simone – Garzanti, 2011 – pag. 33)
La Repubblica 08.10.11
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“Intercettazioni, sconti sul carcere il Pdl cerca il sì del Terzo polo”, di Liana Milella
Ma i centristi rilanciano: tornare al testo-Bongiorno. Enrico Costa: “Sanzioni adeguate ma non punitive per chi pubblicherà gli ascolti vietati”. Via il carcere pesante, fino a tre anni, per i giornalisti che pubblicano intercettazioni “irrilevanti”, quelle che, in un lavoro di scrematura delle carte giudiziarie tra pm, gip e avvocati, sarebbero destinate a finire in un armadio blindato senza mai essere svelate sui media. Il relatore del ddl sulle intercettazioni, il pidiellino Enrico Costa, lo ufficializza a La7: «Sanzioni adeguate, ma non punitive, a questo sto lavorando». A questo, e anche a molto altro, lavora Costa: l´udienza-filtro anticipata, forse coincidente con il tribunale del riesame, per eliminare il blackout delle notizie e il bavaglio alla stampa, l´autorizzazione di tre giudici, le regole delle riprese audio-video, le motivazioni per ottenere una registrazione. Tutto questo, da parte del Pdl, per agganciare l´opposizione. Dice Costa: «È nostro auspicio che il ddl venga approvato non solo dalla maggioranza». Niente fiducia? «L´obiettivo è cercare il consenso dell´opposizione in Parlamento». E ancora: «È una legge che può essere votata senza la fiducia». Fiducia che, va detto, non solo è mal vista dal Quirinale, ma comporta poi un voto segreto finale. Un passaggio che potrebbe essere utilizzato dal gruppo di Scajola per dissociarsi dalla maggioranza. E che fa paura.
È un fine settimana decisivo per il destino della legge. Che si è aperto ieri con un incrocio fittissimo di telefonate. Da una parte il Pdl, dall´altra soprattutto l´Udc. Il partito che anche giovedì, nello scorcio di dibattito alla Camera, con Pierluigi Mantini, ha lanciato un messaggio esplicito, “non forzate la mano, mantenete la mediazione della Bongiorno e noi ne trarremo le conseguenze”. Non si spostano da qui gli uomini di Casini, lui e i suoi tacciono per tutto il giorno. Ma la posizione resta quella della conferenza stampa Bongiorno-Rao-Pisicchio, «la nostra linea del Piave è la mediazione Bongiorno, o si torna lì o niente».
Ma è chiaro, a sentirli, che l´interesse a una legge «non vendicativa nei confronti di giudici e giornalisti», per usare una frase che il leader Casini ha speso più volte nell´ultima settimana, c´è tutto. Anche se è vero, come ha detto di nuovo Fini, «che i problemi degli italiani sono altri», tuttavia la legge è alla Camera, Berlusconi vuole farla approvare «per mettere fine a un sistema barbaro», a «uno scandalo quotidiano di cui non si riesce più a denunciare la gravità e l´anomalia», come ha ripetuto ancora ieri. E dunque contenere la rabbia del Cavaliere, sfruttare il suo momento di evidente difficoltà politica, evitare la fiducia e migliorare la legge, può essere un obiettivo.
Tutto dipende dalle prossime ore. Soprattutto dalla qualità sostanziale delle modifiche. Sulle quali sono molto freddi sia il Pd che l´Idv, convinti come sono che la legge sia negativa nel suo complesso, e non cambi solo perché migliora un singolo comma. Questo spiega il silenzio sui possibili emendamenti resi noti da Repubblica. Proprio a partire dai tre anni di carcere per la stampa. Costa sta esaminando la proposta alternativa della Pd Donatella Ferranti, che diversifica fortemente la sanzione. Carcere «fino a 90 giorni o ammenda da 5 a 30mila euro» se si pubblicano intercettazioni destinate alla distruzione o quelle che riguardano terze persone non indagate. Ma la minaccia della cella scende a 45 giorni e la multa si attesta tra 3 e 15mila euro se finiscono sui giornali quelle «irrilevanti».
Idem per quella finestra di blackout, oggi prevista con il lodo Costa, tra un provvedimento dei giudici che può contenere telefonate registrate (un´ordinanza di arresto, di perquisizione, di sequestro) e l´udienza-filtro. Costa e lo stesso Niccolò Ghedini lavorano a una soluzione diversa, potrebbe essere un´udienza a ridosso della misura o che coincida con il tribunale del riesame. Ma anche su questo l´Udc ha deciso che sta a guardare finché non vedrà in concreto il nuovo pezzo di carta.
La repubblica 08.10.11