«C’era bisogno di un governo di tregua quando il Presidente Einaudi diede l’incarico a Giuseppe Pella. E anche se ebbe vita breve, fu un’esperienza importante e utile, che segnò il futuro dell’Italia repubblicana». Giorgio Napolitano ha rievocato ieri, in una tappa importante del suo viaggio italiano nel centociquantesimo dell’Unità, a Biella che nel Pantheon nazionale è anzitutto patria di Quintino Sella, il primo governo di transizione della storia repubblicana. Facile sarebbe stato accennare solo all’unico titolare di Via XX settembre che sia mai stato capace di un pareggio di bilancio.
E invece, Napolitano scandisce quel richiamo al «governo di tregua», e nel passaggio immediatamente successivo, nel cuore del Nord Ovest largamente governato dalla Lega, quasi grida «di tutto ha bisogno l’Italia fuorché di pregiudizi e divisioni». E i leghisti applaudono, applaudono anche quando il Presidente – reduce da un bagno di folla scandisce che «al Sud si lavora, si fatica, e a volte in maniera bestiale». Oggi, in cima ai pensieri del Presidente ci sono le cinque donne morte di lavoro nero nel crollo di Barletta, «specchio di un’Italia che fatica nel senso più pesante del termine, e che produce come può», anche per soli «3 euro e 95 l’ora, non si sa per quante ore al giorno e senza contratto». Roberto Cota, il bossiano governatore del Piemonte, poi ringrazierà Napolitano, ma intanto serra le mani giunte nell’incavo delle ginocchia.
Tutti gli altri applaudono, applaudono anche quando Napolitano torna a insistere, uniti o non si cresce. Il Presidente rilancia con sempre maggior forza il medesimo messaggio, rafforzare l’unità nazionale, nella quale il processo federalista è perfettamente ascritto «essendo dentro la nostra Costituzione e dentro il nostro Stato unitario». Ma occorre «attuare il federalismo senza proclami». E lo sviluppo, il futuro: «l’Italia deve crescere insieme», non c’è crescita senza il Mezzogiorno, e senza crescita non «possiamo liberarci dal fardello del debito pubblico».
E invece, intanto, da Roma le notizie sono tutt’altro che buone: le misure per la crescita che dovevano essere varate in mattinata slittano al 20 di ottobre, le banche italiane sono sotto il downgrading delle agenzie di rating, e questo semplicemente significa che il danaro costerà loro molto di più e arriverà poi alle imprese a tassi per loro ancor meno sostenibili. E anche qui, Napolitano per la prima volta parla dell’intera Azienda Italia, «dobbiamo aver cura della solidità del sistema bancario, del non indebitamento delle famiglie, della solidità irrinunciabile del manifatturiero», e sono proprio i tre punti di forza nostri nella crisi, quelli che rendono – se ben gestito – sostenibile un debito pubblico che è pari al patrimonio dello Stato, ma che vale un quarto della ricchezza dei privati.
Per non dire della ridda di dichiarazioni vergognose, sconcertanti e tutt’altro che consone al ruolo istituzionale del Presidente del Consiglio, che ieri riteneva pure di poter arrivare sino all’ultimo minuto utile, al primo di novembre, per la nomina del governatore della Banca d’Italia, rivendicata quasi come un diritto esclusivo e proprio, senza alcun riguardo per il parere del Consiglio Superiore dell’Istituto, né per lo stesso Napolitano. Mentre a Biella il Presidente parlava, a Roma non era ancora andato in scena il peggio. Ma Napolitano, da tempo, non ha bisogno di attendere che accada ancora qualcosa per sapere che la situazione è gravissima. Quando pronuncia quel riferimento al governo Pella la sua è anche una citazione di scuola: non potrebbe non essere esperito un tentativo, con questo Parlamento, prima di pensare ad elezioni anticipate.
Ma l’esempio scelto è un lampo, è una soluzione iscritta già nella storia del Paese. Un esecutivo di transizione. Il governo Pella, in una difficilissima fase politica della storia repubblicana, quando la leadership di De Gasperi, ormai logorata e sconfitta dal tentativo di imporre la famosa legge-truffa tante volte paragonata all’attuale porcellum, scatenò una tale lotta di successione all’interno della Democrazia cristiana da far precipitare nell’ingovernabilità un Paese non ancora avviata al Miracolo economico. Si ricorse allora, tra il 17 agosto del 1953 e il 12 gennaio del 1954, a un governo di decantazione, a un «governo degli affari», come si chiamava allora (e nel senso degli «affari correnti»), che placò la lotta selvaggia tra i nascenti leader.
Un governo guidato da un piemontese per bene, e talmente lontano dai giochi di corrente da sembrare, da ex ministro del Tesoro di De Gasperi, un proto-tecnico, con ministri del calibro di Vanoni, Segni, Taviani, Fanfani, e con Andreotti sottosegretario, che poi la stessa Dc mollò definendolo, in fondo, solo come «un governo amico», aprendo a un breve governo Scelba e poi al primo Fanfani. La Dc sapeva sopravvivere ai giochi di pieno e di vuoto del potere. Oggi, il vuoto è colmato dal solo Giorgio Napolitano. Che anche ieri, ha ringraziato per la calorosa accoglienza «quei ragazzi gioiosi che mi danno fiducia, per svolgere il mio mandato, in condizioni difficili giorno per giorno».
La Stampa 07.10.11