Dopo una lunga riflessione fra sé e sé (i due amici a cui vuole più bene), il presidente del Consiglio ha finalmente colto l’essenza del caso italiano, il motore primo della crisi politica in cui ci stiamo avvitando. Si tratta del nome del suo partito. Non il declino fisico del capo, la mediocrità dei sottoposti e l’incapacità congenita di mantenere le promesse e riformare un sistema giurassico e corrotto. Nella sua testa di pubblicitario il problema non sono mai le cose, ma le etichette. Checché ne dicano i mercati, gli imprenditori e gli elettori (compresi i suoi), la vita in Italia sarebbe ancora un’immensa pasticceria e lui l’uomo più popolare del globo, se solo il Pdl si chiamasse in un altro modo. Ne consegue che la via d’uscita non può essere un banale decreto per la crescita, ma la ricerca di un nome più simpatico.
A un capannello di ridanciani clientes che gli rinfrescavano l’ego in Parlamento, il primo ministro ha proposto «Forza Gnocca» («Go pussy», sul sito della Cnn): elegante come certe cene. Rimangono perplessità tecniche sul simbolo, ma la consulenza di Bossi sarà in grado di dirimerle: a una parlamentare che osava contestare la raffinatezza di «Forza Gnocca» («Allez Minette», sul sito di Le Monde), un leghista ha risposto in pieno transatlantico di Montecitorio: «Ma vai a farti sc…».
L’impressione è che il premier sia ormai come la situazione: fuori controllo. In preda a una deriva infantile. L’altro ieri ha accolto il Presidente macedone con una battuta sulle macedonie di frutta. Di questo passo ne farà altri all’indietro, mettendosi a giocare a nascondino nei corridoi di palazzo Grazioli o a rubabandiera durante i vertici coi Grandi del mondo, che parlano di cose tanto complicate e noiose.
Ma persino in questo interminabile viale del tramonto, colui che fu Berlusconi rimane fedele alla sua essenza di pubblicitario. Convinto che, di ogni prodotto, ciò che davvero conta sia il pacchetto in cui viene incartato. Dieci anni fa suggerì a Fiat di uscire dalla crisi chiamando le Panda «Ferrari Young». Chissà quante volte avrà cercato di ribattezzare Tremonti «Thatcher» e Calderoli «Einstein» o almeno «Confalonieri». Per vent’anni ha venduto scatole vuote, miracoli italiani, aliquote irlandesi, il mantenimento di un benessere diffuso che la realtà si incaricava giorno dopo giorno di smentire. Non solo per colpa sua. E’ che i tempi sono cambiati e lui da tempo non è più un uomo di questo tempo.
L’ossessione per i nomi (diffusa anche fra i suoi cloni sfocati del centrosinistra) è seconda solo a quella per il potere evocativo dei numeri. Quando vuole elogiare se stesso infila lunghi elenchi cifrati, pur di farci sapere che ha fatto 211 leggi, vinto 23 coppe, presieduto 144 riunioni. Come se il numero fosse di per sé un merito. Confezione e Quantità rappresentano i suoi totem. I totem degli Anni Ottanta, quelli del consumottimismo e dell’indebitamento allegro, che questo Paese ha tentato disperatamente di mantenere in vita fino a oggi, affidandosi al campione che ne incarnava i valori. Purtroppo il Duemilaundici è insensibile alle leggi degli spot. Per uscire da una crisi che prima di essere economica è morale, non basterà infiocchettarla di sorrisi e «patonze». Anche se il partito del premier ha effettivamente dei problemi con un nome: il suo. Quel «Berlusconi», già garanzia di successo, che sta scomparendo da tutti i manifesti. Fino al giorno in cui qualcuno dei clientes che ancora ieri si spanciava per la sua patetica battuta sessista comincerà a negare che un tipo così, capace di venderci il nulla per vent’anni, sia mai realmente esistito.
La Stampa 07.10.11