Saranno nuovamente gli insegnanti a ricostruire, nelle scuole, l’Italia di domani, così come accadde 150 anni fa, in cui furono proprio loro a realizzare appieno l’Unità d’Italia, diffondendo dalla Sicilia al Piemonte, tanto nelle campagne quanto in città, la nostra unica lingua, per sconfiggere poi negli anni ’50 l’analfabetismo. Nella giornata mondiale degli insegnanti, che si celebrerà domani, ci auguriamo davvero che questi uomini e donne possano essere i protagonisti di una stagione di innovazione e cambiamento che ridia centralità nel nostro Paese alla scuola della Costituzione.
Sta uscendo dal servizio attivo la generazione che ha vissuto da protagonista la lunga stagione che è riuscita a tradurre il cambiamento socioeconomico degli anni sessanta nello straordinario sviluppo e innovazione dell’istruzione degli anni settanta. È una generazione che lascia la scuola nel disincanto: il ruolo della scuola dell’emancipazione e del superamento degli svantaggi sociali rischia di soccombere sotto la mannaia demolitrice del Governo Berlusconi, che ripropone la scuola della separazione e dell’immobilità sociale, tanto combattuta da Don Milani.
I “giovani” insegnanti stanno entrando nella scuola con mille difficoltà e segnati troppo spesso da un devastante precariato. Per questo, quando torneremo al Governo, vogliamo costruire le condizioni affinché il passaggio di testimone coincida con la ricostruzione di una prospettiva di rilancio della professione insegnante, per tornare ad investire su una scuola per tutti e per ciascuno, che veda nella scuola pubblica l’istituzione democratica fondamentale, in cui ricostruire l’identità di un Paese unito.
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“Il terzo gradino”, di Beppe Bagni, presidente CIDI- Centro d’iniziativa democratica degli insegnanti
Nella giornata mondiale dell’insegnante mi piace raccontare una piccola storia. Un alunno aveva scritto che il suo luogo preferito nella scuola era il terzo gradino delle scale. Chiedendogli il motivo, venne fuori che il terzo gradino era quello appena prima del pianerottolo, il più alto prima di cadere sotto lo sguardo della portineria. Da quella posizione si vedevano tutti i compagni e ancora non si era visti dagli adulti.
Un insegnante incontra nella sua carriera molti studenti che un gradino simile a scuola non l’hanno mai trovato.
Mi ricordo molto bene di Davide. Si era iscritto nella prima odontotecnico, accompagnato da certificazione di disabilità. Al fondo, la solita sindrome di mal di scuola, allergia che di norma consiglia il soggiorno nei professionali.
Davide aveva uno sguardo vispo, curioso verso la scuola, ma di quella curiosità tipica di un turista in un paese straniero. Non ho mai avuto la sensazione che considerasse l’esperienza scolastica come qualcosa che appartenesse alla sua vita reale, quella che trascorreva alle Piagge, periferia di Firenze. L’unico spazio veramente suo il marciapiede, condiviso con gli amici del quartiere.
So bene che non è una storia originale, nella scuola pubblica si trovano molti ragazzi e ragazze così. Adolescenti-convalescenti; corpi fragili che soffrono il contatto con la scuola. Se vi si immergono lo fanno contro voglia e trattenendo il respiro.
Era come se Davide stesse nel suo banco, chiuso in un sacchetto di plastica.
Tante volte un insegnante si trova di fronte a ragazzi e ragazze sigillati, apparentemente impermeabili a qualunque approccio, col desiderio scritto in fronte di transitare in fretta il tempo della scuola passando sui marciapiedi più bui, ma non possiamo lamentarci dei nostririsultati. Sicuramente accanto a fallimenti inevitabili abbiamo tutti memoria di sacchetti fatti a brandelli, strappati con i denti e a costo di tanto sudore.
Un insegnante può essere bravo quanto vuole, ma non riesce in questa impresa se non impara a pensare come si pensa dall’interno del sacchetto e se non comprende l’importanza del terzo gradino. Ci riesce solo se rifiuta l’idea stessa che vi sia qualcuno che non è fatto per la scuola . Se è convinto che anche a chi dice che non vuol imparare si può far cambiare idea, se solo gli si offre una ragione per farlo.
In un racconto per l’infanzia di J. Crockett, Harold è un bambino che si costruisce il proprio mondo con la matita viola. È notte, dalla sua finestra vede la luna e decide di fare una passeggiata. Allora disegna la luna e una strada, e lui che la percorre. Poi disegna il mare e una barca su cui naviga. Dopo decide di andare verso la luna, allora disegna una mongolfiera e vola nel cielo notturno. Vedendo la città dall’alto vuole disegnare la sua finestra, quindi con la matita disegna case e palazzi e finestre, ma nessuna corrisponde a come lui si ricorda la sua. Fino a quando si ricorda che aveva visto la luna attraverso la finestra della sua stanza. Allora disegna l’interno della sua camera e la finestra, e la luna oltre di essa. Finalmente soddisfatto, chiude l’album e va a letto.
Harold forse non lo sa, ma quella sera è cresciuto. Ha imparato che il suo è solo un punto di vista, uno dei molti possibili, e ha disegnato la luna di qua e di là dalla finestra. È così che si cresce, con un processo che certamente richiede un impegno molto personale, ma anche degli insegnanti che ti insegnano a impugnare bene la matita viola.
Ma soprattutto, che ti convincono che per tutti c’è una luna che vale la pena disegnare.
Magari stando seduti sul terzo gradino.
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