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"La vita è il costo del tuo lavoro. Lettera a un'operaia che muore", di Edoardo Nesi

ll costo del tuo lavoro è la vita. La tua vita. Sei un’operaia e vai ogni giorno a lavorare in uno scantinato. Lo scantinato è un opificio. Una maglieria. Tu confezioni maglie. Un giorno cominci a sentire strani rumori che non hai mai sentito prima.Sono come dei gemiti, degli scricchiolii. Non vengono dalla strada vicina, o dalle macchine davanti alle quali lavori. Vengono dalle mura del palazzo. Ti chiedi cosa possano voler dire. Non puoi accettare che siano ciò che pensi. Ti dici che forse è normale sentire degli scricchiolii, in un palazzo così vecchio. E continui ad andare a lavorare. Ogni giorno. Ti chiedi se non dovresti parlarne con qualcuno. Coi sindacati, coi vigili. Con la polizia. Coi carabinieri. Ma non lo fai. Ti scordi di farlo. Preferisci scordarti di farlo, forse. Ogni giorno vai avanti, e torni lì, a lavorare. Perché devi. Devi pagare la spesa, i vestiti dei bambini, il mutuo. Continui a lavorare. È quello che fai, che hai sempre fatto. Lavori sepolta in uno scantinato per combattere la concorrenza di altri disgraziati come te. Sei impegnata in una competizione crudele con altri lavoratori che lavorano in altre fabbriche, in tutto il mondo. Fabbriche probabilmente più sicure dello scantinato in cui lavori tu. Ma non importa. Devi lavorare e lavorerai. Non credi davvero possibile che un palazzo possa cadere. E poi, proprio su di te. Ti dici che queste cose è molto difficile che succedano. Che non succederà proprio a te.

Il costo del tuo lavoro è la tua vita, ragazza mia. E non dovrebbe essere così. Non è giusto che sia così. Non quando con il tuo lavoro stai producendo parte dell’eccellenza mondiale. Il Made in Italy. Perché non importa quale sia la qualità delle maglie che produci. È merce fatta in Italia. Ha un valore misurabile, e lo si applica a ogni straccio e a ogni accessorio che venga prodotto nel nostro Paese. Da chiunque. Decine e decine di migliaia di cinesi sono venuti e continuano a venire a lavorare in Italia, chiusi in scantinati come il tuo, per poter produrre merce Made in Italy. Sei parte di una catena di lavoro che un tempo era una cosa gloriosa, ragazza mia, l’orgoglio e il vanto della nostra nazione, e oggi invece non ha più alcun senso. Ricordalo, e salvati.

Il Corriere della Sera 04.10.11

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Quelle crepe aperte da 3 giorni «Ci dicevano: le avete dipinte», di Marco Imarisio

In via Roma la speranza si accende al buio. «Spegnete tutto». Quando l’urlo arriva dal punto più alto della montagna fatta di blocchi di tufo e detriti, il brusìo, i singhiozzi e le parole sommesse si interrompono. I gruppi elettrogeni che illuminano questa frana che fino a mezzogiorno era stata una palazzina a due piani, vengono spenti, i cellulari silenziati. «Ci sentite?» urla nell’oscurità il vigile del fuoco, in bilico tra due lastre, con la faccia incrostata di polvere e i vestiti fradici perché laggiù, nella pancia dell’edificio, è anche saltata una conduttura dell’acqua. «Ci sentite?». Ripetuto tre, quattro volte, nel silenzio innaturale delle centinaia di soccorritori, giornalisti e semplici curiosi che a notte fonda circondano la carcassa del palazzo. Dalle viscere della montagna arriva un tonfo, un suono sordo, qualcuno sta sbattendo un oggetto contro una parete. «Vai, vai, ci sono, accendete che scaviamo». E ricomincia il rumore dei gruppi elettrogeni, delle ruspe, riparte la catena umana che si passa secchielli di plastica pieni di mattoni, per sgomberare la scena.

Fino all’alba, fino a quando non ci sarà più nulla. Perché in questo crollo annunciato di Barletta c’è anche il paradosso dell’incertezza, nessuno sa quanti sono i vivi e i morti, nessuno sa quante fossero le operaie al lavoro nel maglificio Cinquepalmi che occupava l’intero seminterrato. Certi giorni erano almeno una dozzina, altre volte molte meno, in tanti sostengono che in quell’opificio aperto nel 1995 si lavorasse soprattutto in nero. Così la contabilità dei sommersi e dei salvati diventa impossibile, si procede a spanne, come i vigili che scavano con le mani coperte di sangue per dare aria a eventuali superstiti.

Sono tutti qui, familiari, figli e padri che sperano, che compongono numeri al cellulare. «Dà libero, quindi vuol dire che forse è ancora viva…». Tutti raccolti in venti metri quadrati, nello spazio tra via Roma e via Muro Spirito Santo, dove dall’ultimo piano del palazzo accanto si vede il buco lasciato dalla palazzina crollata. Intorno ai soccorritori si è creata una bolla di tensione, sudore, cattivi umori e rancori rappresi.

C’è un uomo che si aggira sfregando le mani tozze e sporche di calce bianca. Si chiama Ruggero Vitrani, abitava da una decina d’anni al secondo piano. Racconta che venerdì mattina, dopo essersi consultato con i vicini di pianerottolo, è stato lui a chiamare l’ufficio tecnico del Comune, e di seguito i vigili urbani e quelli del fuoco. «Correte, che sulla parete del salotto e in cucina si sono aperte delle crepe larghe tre centimetri, ci posso mettere una mano dentro». Sono arrivati, hanno fatto il sopralluogo in ogni appartamento. Tranquilli, va tutto bene, è stata la risposta, non c’è alcun pericolo. Ieri mattina Vitrani ha sentito le vibrazioni che salivano dal basso, ha visto che la porta di casa non si apriva, i muri si stavano deformando. «Ho sfondato e sono scappato». Dieci minuti dopo è venuto giù tutto.

L’edificio di via Roma, costruito all’inizio del Novecento, era già stato controllato nel 2009, quando i proprietari avevano chiesto e ottenuto l’autorizzazione a sopraelevare di un piano lo stabile adiacente, da due a tre. Dunque pochi anni fa questo cumulo di mattoni bianchi, che ora sembra una costruzione del Lego schiacciata dal piede di un gigante, era stata ritenuto idonea per sopportare qualche altra tonnellata di peso. L’impresa Giannini, proprietaria dello spazio, aveva demolito l’edificio accanto, lasciando in piedi solo i muri di confine, abbattuti venerdì scorso, proprio ieri mattina le ruspe hanno ripulito l’area dalle macerie.

E subito dopo il panettiere Roberto Sansone ha fermato il suo motorino all’imbocco della via. «Quel palazzo tremava, sembrava si muovesse. Poi si è afflosciato su se stesso. Ha presente un palloncino bucato quando si sgonfia?». Intorno agli scavi non si respira speranza e apprensione, come spesso capita. L’aria è sempre più spessa, carica di rabbia. Una collaboratrice del sindaco Nicola Maffei, appena atterrato all’aeroporto di Bari, gli intima di non venire in via Roma. «C’è molta esasperazione, puoi immaginare…».

L’immaginazione non serve con Tobia, il fratello di Emanuela Antonucci, la donna incinta di cinque mesi salvata dai primi soccorritori. L’hanno calata giù dalla stanza della vecchia madre, completamente sventrata. Sulla parete si vede il quadro della Madonna dello Sterpeto e due crocifissi. Ma Tobia non crede ai miracoli, crede piuttosto nell’approssimazione degli uomini. «Quando sono venuti a controllare ci hanno detto che erano crepe di pittura, ci hanno chiesto se per caso non stavamo facendo una speculazione in casa nostra, pensavano ai soldi dell’assicurazione. Venerdì l’ufficio tecnico ci aveva garantito l’esito per sabato mattina, ma non si è fatto vedere nessuno. E adesso guardatelo qui, l’esito».

Il prefetto ha mandato un agente in ospedale, per chiedere alla prima operaia estratta dalle macerie quante fossero davvero le persone al lavoro nell’opificio. Consulta una lista. «Là sotto sono ancora in cinque». Gli sguardi vanno a una donna seduta su una sedia di plastica. È la signora Cinquepalmi, la proprietaria del maglificio. Sua figlia Maria, appena 14 anni, aveva l’ultima ora di scuola libera, mancava la professoressa di educazione fisica. Allora è andata a trovare i genitori. L’hanno vista scendere nel seminterrato che era mezzogiorno. La mamma era fuori, a fare compere. Adesso è qui, non si muove da ore. A ogni sussulto dei soccorritori rivolge uno sguardo speranzoso alle infermiere e alle assistenti sociali che le stanno accanto, attente a non guardarla negli occhi. Non le hanno ancora detto che Maria è morta, nessuno ha trovato il coraggio di farlo.

Il Corriere della Sera 04.10.11