Debbo dire che mi era completamente sfuggita la pubblicazione, nel 2009, del libro di Mino Martinazzoli (con Annachiara Valle). Uno strano democristiano. D’altronde, l’autore di certo non aveva fatto nulla per promuovere quel suo libro di «ricordi» presentati, nel modo spoglio e riduttivo che gli era proprio, come «nient’altro che vaghe spigolature, ormai consumati nel loro tempo».L’ho letto e ne scrivo ora che Martinazzoli non c’è più, e ne scrivo non solo per colmare una mia disattenzione né solo per la stima e l’amicizia da cui fummo legati, ma perché mi ha fortemente colpito. E la ragione è presto detta: in questo libro si ritrova nella sua interezza e coerenza una figura singolare e rilevante di protagonista della vita pubblica italiana, e insieme una rappresentazione genuina, coraggiosa, non scontata, di due decenni cruciali, quelli nei quali si avviò a conclusione e si chiuse una intera fase storica dell’Italia repubblicana.
Vengono messi a fuoco nel libro fatti ed episodi — anche per aspetti inediti — che Martinazzoli visse in prima persona; ed emergono i tratti di una personalità politica esemplare, e insieme i tratti migliori dell’epoca contrassegnata dal ruolo dei partiti che fondarono la Repubblica e dal rapporto conflittuale ma non distruttivo che tra essi successivamente si stabilì. C’è molto su cui riflettere e c’è molto da imparare per quanti vogliano oggi guardare al futuro della vita politica e istituzionale nel nostro Paese.
Martinazzoli è rimasto fino alla fine profondamente (non acriticamente) legato all’esperienza della Democrazia cristiana, si è identificato con quella assai breve (la «disperata avventura») del rinato Partito popolare, né ha mai abbandonato l’idea di un ruolo del «centro» nella dialettica politica. Ma tutto questo sempre nel quadro di una scelta della politica «come disegno, come visione, come durata», e di una meditata adesione a «due concetti: la mitezza della politica e il limite della politica».
Della sua coerenza è testimonianza, nel libro, la consonanza piena e costante con Moro (ma anche, in certi momenti, l’autonomia nell’assumersi le sue responsabilità, ad esempio da presidente della «Commissione inquirente» durante il caso Lockheed). Della sua onestà intellettuale e del suo coraggio sono egualmente testimonianza i giudizi sulla crisi della Dc (dopo la scomparsa di Moro, «anni di pura sopravvivenza e poi di decadenza») e l’impegno per un suo radicale rinnovamento. Ne resta, ancor più, testimonianza la conclusione che l’«imperversare» degli interventi della magistratura per Tangentopoli, non fu «la causa determinante dell’implosione del partito» (della Dc e forse anche di altri). «In verità, la nostra sorte si era giocata sulla nostra ottusità nell’affrontare i grandi cambiamenti che nel frattempo stavano verificandosi».
Vale davvero ancora la pena di leggere questo libro di Mino Martinazzoli. Per capire meglio molte cose: compresi i problemi della giustizia, come egli li vide e li visse — ma come sono rimasti simili! — da ministro per tre anni, fino al 1986, tenendo ferma la linea del «contenere la difficoltà del rapporto tra politica e magistratura che si era nel frattempo ampliata», nonché polemizzando con le «riforme fatte ad horas, inseguendo le convenienze del momento e non ponderate in prospettiva».
E vale ancora la pena di leggere questo libro, che così riccamente esprime impegno, spirito di servizio, disinteresse personale, passione nutrita di cultura e anche di ironia e autoironia, e infine attitudine al dialogo, per capire di quale stoffa possano essere i politici, e quale dignità debba mostrare la vita pubblica se non si vuol vedere messo in gioco «non solo il destino della democrazia, ma anche il senso della politica».
Il Corriere della Sera 03.10.11