I dati sulla disoccupazione diffusi all’inizio del 2011 dall’Istituto internazionale del lavoro erano preoccupanti (210 milioni), ma si inserivano in una visione ottimistica dell’andamento ciclico dell’economia mondiale. I disoccupati nel mondo, nel pieno della crisi, sono aumentati — in meno di sei mesi — di oltre 8 milioni.
Quello che però conta è che ora essi si presentano in gran parte sotto l’aspetto di disoccupazione strutturale di lunga durata, ossia una condizione sociale destinata a modellare sotto il suo peso le stesse forme morali delle società mondiali. E questo va al di là del numero dei disoccupati Paese per Paese.
Mi spiego. Se si guarda al rapporto tra disoccupati di lungo periodo e disoccupati in generale, si vedrà che la Spagna, con il numero di disoccupati più alto in Europa — il 21,2% — ha una percentuale di disoccupazione strutturale di lungo periodo — il 40% — che è minore del 47% della Germania, che pure è una delle nazioni che ha abbastanza resistito all’avvento della disoccupazione totale, facendo registrare un tasso del 7%. Questo peso specifico della disoccupazione strutturale segnala una divisione profondissima che può crearsi nelle carni stesse delle società al di là dei tassi di crescita: questo è il punto fondamentale. Gli ultimi rimangono sempre ultimi. Quando, poi, dilaga la disoccupazione giovanile, essa viene formando delle «isole sociali» che si autoriproducono e imprigionano i soggetti in un habitus morale impermeabile rispetto ai valori del lavoro e della speranza. Un fenomeno che si presenta in forme drammatiche in primo luogo nelle nazioni a capitalismo avanzato, ossia post o neoindustriale. Il 41,7% della disoccupazione tra i 15 e i 24 anni in Spagna si accompagna, sempre nella stessa fascia di età, al 27,9 dell’Irlanda e al 27,8 dell’Italia, al 23,3 della Francia, al 19,5 del Regno Unito, al 10,1 della Germania. Se guardiamo oltre l’Europa, ecco gli Usa con il 18,4 e il Brasile (che pure continua a essere un’economia in crescita) con 16,1 e il triste, stagnante, Giappone con il 9,3%. Gli Usa sono esemplari a questo riguardo. Anche Wall Street è stata invasa da disoccupati, lavoratori e sindacalisti: è l’inizio di un movimento che si svilupperà con effetti imprevedibili.
Se si vuole avere un’idea di quale sia la situazione nei Paesi emergenti dei nuovi continenti di cui tanto si decanta la crescita, basterà guardare il Sud Africa, che pure è soggetto a una tenuta economica spettacolosa in questi ultimi anni, ma che registra una disoccupazione giovanile del 50,5%. È noto a tutti che questo dato è esemplificativo di una realtà che riguarda l’India come la Cina e molti Paesi dell’Africa Nera e ha una specifica versione in Egitto, Tunisia, Marocco, Siria, financo Israele.
La spinta del sistema economico mondiale di creare occupazione sembra essersi esaurita. Se guardiamo alla forza lavoro globale, planetaria, il rapporto esistente su scala mondiale tra coloro che sono occupati a tempo pieno — 40% — e coloro che invece hanno creato occupazione da sé, ossia coloro che sono definiti self employed full time — 31% — è significativo: la stragrande maggioranza del self help lavorativo è relegato in occupazioni misere, precarie, umilianti e prossime alla condizione d’indigenza, come è dimostrato da tutte le analisi esistenti in proposito. Esso rappresenta in larga misura uno strumento che i poveri hanno nelle loro mani per auto-organizzare la loro vita e sfuggire alla marginalità (i fiori della speranza).
Su tutto spicca, infatti, il dato allarmante del 7% della popolazione disoccupata rispetto alla forza lavoro globale. Se non vi fossero il self help e il part-time (che incide per il 22% degli occupati mondiali), i dati sarebbero molto più drammatici di quanto non siano. Se poniamo a confronto i dati con quelli della disuguaglianza sociale, infine, ben si comprende come questa situazione abbia generato ciò che io chiamo la scomparsa del senso di giustizia. Se consideriamo la disuguaglianza in base al reddito percepito indicando con l’indice zero la completa uguaglianza e con l’indice 1 la completa disuguaglianza, i risultati sono sconcertanti: Francia, Germania, Irlanda, Spagna si attestano tutte attorno al valore 3, mentre Giappone, Italia, Gran Bretagna lo superano abbondantemente, lasciando aperta la via agli Usa con circa il 3,8 e al Messico con il 4,8. Ma ciò non solleva alcuna rivolta morale degna di questo nome, anzi: più personalmente s’incarna la disuguaglianza, più si è socialmente premiati.
La disoccupazione si rivela in tal modo una sorta di pantano morale in cui ci si abitua a vivere. E dal pantano non cresce il grano. Possono, però, spuntare i fiori: quelli della speranza. Nonostante tutto.
Il Corriere della Sera 03.10.11