E’ segno dei tempi che si legga una lettera della Banca centrale europea al nostro Governo come un messaggio dell`Oracolo di Delfi, dal quale apprendere la strada che dobbiamo imboccare per la nostra salvezza. Ed è segno degli stessi tempi che venga dalle imprese un “progetto per l`Italia”, articolato in cinque proposte per fare finalmente ripartire la crescita. Gli italiani hanno capito che stringere la cinghia è essenziale per porre un argine robusto alla crescita del nostro debito e per farlo anzi scendere una buona volta al di sotto dei livelli di guardia. Ma hanno anche capito che senza crescita rischiarne di trasformare la cura intrapresa in una sorta di calvario verso l`anoressia, raggiunta la quale il debito sarà ancora alto e noi non avremo più ne forze ne risorse per abbatterlo.
Si rischia, in una situazione del genere, di creare nel Paese un clima psicologico opposto a quello che serve per rendere condivisa l`austerità alla quale comunque esso è chiamato: se tanto devo morire, perché devo morire digiuno? Di qui l`attenzione con cui vengono accolte le proposte per crescere in una fase nella quale le turbolenze della vita politica ne distraggono i protagonisti da questi temi cruciali e li rendono a dir poco più deboli di quanto servirebbe nel farsi loro portatori dell`agenda che ci vuole per l`Italia.
Di qui l`apprezzamento che merita la passione con la quale in questi mesi Emma Marcegaglia si è dedicata più di altri al sostegno della crescita e alla raccolta di idee e di consensi per realizzarla, riempiendo così un vuoto, che, come accennavo, era addirittura controproducente lasciare scoperto. Detto questo, se davvero sull`agenda ci sono finalmente i progetti che possono portare non all`anoressia, ma allo sviluppo sano ed equilibrato dell`Italia, cerchiamo di essere ben consapevoli dei fattori su cui più dobbiamo far leva per realizzarli, senza esaurire la nostra discussione sulla maggiore o minore bontà di singole proposte. Già vedo l`attenzione concentrarsi sulla patrimoniale come fonte più o meno appropriata per “coprire” una minore tassazione sulle imprese e sul lavoro. Non perdiamo trent`anni in una nuova guerra di religione. Se lo si affronta senza tabù e senza toni barricaderi, questo è un tema di non difficile soluzione, sempreché un simile spostamento del carico fiscale sia congegnato in modo da concorrere effettivamente allo sviluppo. Non ci fermiamo qui però. Il catalogo delle cose da fare è importante, ma ancora più importante è poi realizzarle davvero ed è qui che cade di solito l`asino italiano. Poche volte ho visto spiegato il nostro problema con la chiarezza con cui lo ha fatto il 29 scorso il professor Soumitra Dutta, presentando a Roma a Unindustria il suo Global Innovation Index, che colloca i diversi Paesi del mondo in una unica classifica, basata congiuntamente sui fattori di innovazione di cui essi dispongono e sull`innovazione, che, utilizzando tali fattori, sanno produrre. Ebbene, che cos`è che colpisce dell`Italia? Certo colpisce la posizione, che ci spiace vedere così bassa: 35 nel mondo e 22 in Europa (e meno male che c`è stato l`allargamento). Ma colpisce di più un`altra circostanza e cioè che nella disponibilità di fattori innovativi – si tratti di fattori istituzionali, del sistema di istruzione, del nostro personale e della nostra capacità di ricerca, delle comunicazioni e delle istituzioni finanziarie e bancarie – saremmo in classifica ben più alti. Dove scendiamo drammaticamente è nella innovazione che poi in concreto produciamo. In poche parole, mentre per la Germania lo scostamento fra gli input e gli output di innovazione è minimo, il nostro è molto elevato, il più elevato nel gruppo dei Paesi ad alto-medio reddito in cui siamo collocati. Ed eccolo qua, al di sopra di tutto, il problema italiano: l`enorme tasso di dispersione nel raccogliere i risultati di ciò che facciamo e nel realizzare in concreto le riforme che magari approviamo. Non è un problema solo nostro, la Grecia (e non ci dispiaccia il paragone) è nella stessa condizione ed è anche per questo che la cura a cui è oggi assoggettata genera solo recessione. Quando si tratta infatti di ridurre pensioni e stipendi, una volta deliberata la legge che lo prevede, la riduzione avviene. Quando si tratta di riforme che vanno gestite, le leggi si accumulano, ma la gestione non c`è. E nulla cambia. Sono tante le ragioni a cui risale una così grave e diffusa criticità e investono la conformazione dei nostri apparati pubblici, la preparazione che diamo al personale che li incarna, i labirinti del contenzioso in cui si perdono le decisioni pubbliche (e le opere che dovrebbero venirne). Ma ce n`è una che è prima e al di sopra di tutte ed è la nostra difficoltà a generare coesione attorno ai nostri interessi comuni e compenetrazione nei ruoli a cui ciascuno dovrebbe assolvere per realizzarli. A noi italiani sembrerà ridicolo, ma in Giappone, quando la Toyota iniziò a lavorare senza magazzino e con il “just in time”, il traffico veniva fermato per consentire ai camion con i materiali di arrivare ai suoi stabilimenti in tempo per non interrompere la produzione neppure un minuto. Ed in Corea il traffico si è arrivati a rallentarlo all`alba, per consentire ai giovani impegnati nella stagione degli esami di riposare tranquilli. E noi? Noi in una larga parte del Paese non riusciamo a organizzare neanche la raccolta differenziata e anche per questo viviamo circondati da discariche puzzolenti, lontani le mille miglia da quel ciclo dei rifiuti, che è un business profittevole e una fonte di energia. Noi siamo i più ricchi al mondo di quei beni culturali, che possono restituire sino a due euro e mezzo per ogni euro speso su di loro. Ma non riusciamo né a spendere i pur esigui stanziamenti loro destinati, né a orientare i flussi turistici in modo da valorizzare il più possibile del patrimonio di cui disponiamo. Noi produciamo molti risultati di ricerca. Ma sono altri a brevettarli e a lucrare sul nostro investimento. Pensavo a tutto questo l`altro giorno mentre ascoltavo il professor Dutta. E coglievo finalmente in tutta la sua pienezza il senso di quella coesione e di quel saper lavorare insieme, che è essenziale all`innovazione non meno dei computer e di cui altri sa dare prova, mentre noi oggi ne siamo così sprovvisti. Dico oggi, perché non è vero che è una lacuna dovuta al nostro “carattere”. Tutti diventano individualisti e chiusi all`interesse comune, se è questo ciò a cui li si educa e li si incita. Ma in tanti momenti della nostra storia abbiamo dimostrato di essere ben altro. Ce la ricordiamo la costruzione dell`autostrada del Sole? Serve molto Emma Marcegaglia per spingerci a questo, ma non può bastare. È la politica che deve iniettare nel Paese l`impegno e la fiducia nell`impresa comune a cui tutti ci dovrebbe chiamare. Sarebbe proprio qui il suo valore aggiunto.
da Il Sole 24 Ore