Ancora una volta, la grande sensibilità ed esperienza politica del Capo dello Stato ha individuato il problema più grave dell’Italia d’oggi: il distacco e la profonda sfiducia dei cittadini nei confronti di chi li governa. Così va intesa la sollecitazione di Giorgio Napolitano a una riforma elettorale che restituisca al popolo il giudizio sui propri rappresentanti alle Camere e tolga alle segreterie dei partiti il potere assoluto di nominarli in Parlamento. Ma anche la sua nuova, durissima condanna di chi, di fronte ai veri problemi del nostro mondo globalizzato, favoleggia soluzioni fuori dalla realtà, come quella della secessione padana.
Quest’estate che sembra non voler più finire ha acuito l’impressione dell’assoluta solitudine degli italiani rispetto alla loro classe politica. Preoccupati per la sorte dei loro risparmi, per il futuro dei loro figli, per il clima di disorientamento che si diffonde, tra annunci di imminenti catastrofi e rassicurazioni assai poco credibili, avvertono la sconcertante sordità del loro governo e la desolante impotenza della loro opposizione.
La sensazione è quella di un Paese abbandonato a se stesso, aggrappato alla speranza che la tutela interessata dei partner europei basti a salvarlo e la supplenza di autorevolezza e di credibilità del Presidente della Repubblica sia sufficiente per preservarne l’onore internazionale.
Berlusconi, i suoi ministri e la sua coalizione partitica paiono racchiusi come in un bunker di totale isolamento rispetto a quello che avviene fuori dal perimetro della Roma politica. Questa specie di autismo governativo viene rafforzato ogni volta che, con il voto palese, le Camere ribadiscono, con puntualità sistematica, la quota di una sempiterna maggioranza. Una maggioranza che sfida con successo le accuse di connivenze mafiose nei confronti di uno dei suoi ministri, di corruzione nei riguardi di un suo rappresentante, stretto collaboratore del titolare dell’Economia, e che sostiene, a colpi di fiducia, i provvedimenti del suo governo.
Vittorie che irridono i patetici tentativi dell’opposizione di ottenere un ribaltone parlamentare, aggravandone le divisioni ed esasperando i suoi caratteri litigiosi e inconcludenti. Ma che hanno soprattutto l’effetto di autorizzare la chiusura di ogni ascolto agli umori dell’opinione pubblica, con la ripetizione di quello che è ormai diventato un «mantra» autoassolutorio: «Finché i numeri alle Camere lo confortano, il governo ha sempre ragione».
La più significativa conferma di questo fossato che si sta scavando tra il Paese e il governo è venuta ancora ieri, quando si sono registrate le stizzite repliche di alcuni esponenti della maggioranza al piano per la crescita proposto dalla Confindustria e da altre rappresentanze imprenditoriali. Le proposte della Marcegaglia, certo, possono e debbono essere discusse ed è naturale che suscitino consensi e dissensi. Quello che ha colpito, però, è il distacco che si è creato con un mondo, quello delle forze produttive della nostra società, che, per anni, ha costituito uno dei punti di riferimento del berlusconismo nel nostro Paese. Quanto è lontano l’entusiastico consenso di quell’assemblea confindustriale di Vicenza, nel 2006, che elesse l’attuale presidente del Consiglio suo paladino, dal secco ultimatum intimato dalla Marcegaglia al governo. Ma quanto è lontano, soprattutto, l’atteggiamento risentito e quasi sprezzante verso il presidente degli industriali italiani da parte di un ministro come Sacconi, da sempre beniamino di ogni platea confindustriale.
Ecco perché sembra davvero che il fortino in cui si è chiuso il governo, nella sua orgogliosa autosufficienza parlamentare, abbia sollevato tutti i ponti levatoi. Anche quelli con i suoi tradizionali alleati e scambi pericolosamente la garanzia della sua esistenza con l’efficacia della sua azione. Dentro quelle mura si agitano duelli personali e politici, come quelli che combattono Tremonti e Berlusconi. Si sentono echi di battaglie infinite, come quelle tra la magistratura e il presidente del Consiglio. Risuonano nomi di donne e voci di allegri festini. Si percepiscono persino felpati avvertimenti, come quelli inviati dalla Chiesa italiana nei confronti di un certo «costume», chiamiamolo così, politico. Fuori, oltre il fossato, stanno gli italiani, osservatori smarriti di lotte furiose, ma lontanissime dalle loro più urgenti preoccupazioni. La sera, le tv, moderni cantastorie, raccontano le solite favole. Ma ormai non incantano più.
La Stampa 01.10.11